“La grande Russa portatile” è un viaggio emotivo fra libri e vita, frammenti di un mosaico in cui lo scrittore emiliano racconta la grandeur imperiale e le code per i beni di prima necessità, l’alcol e le case stracolme di libri, la libertà minata da regimi che non la tenevano molto in considerazione
Emiliano sì, ma anche russo. Tanti pezzi di vita, aneddoti, e moltissimi riferimenti a libri letti, studiati e scritti (la bibliografia è un ottimo invito alla lettura) costituiscono l’ossatura dei frammenti che Paolo Nori, per la casa editrice Salani, ha raccolto sotto il titolo La grande Russia portatile (177 pagine, 14,50 euro). Libro non poi così singolare, se si guarda al resto della sua bibliografia, che ha tanti titoli classificati come inclassificabili. Pochi, pochissimi passaggi bastano a far capire cosa rappresenti la Russia per Nori. Non mancano molte pagine alla fine, quando chiarisce che «su dei filobus di Leningrado io ho cullato la mia solitudine con una tenerezza alla quale solo in Russia ho avuto accesso, e che gli incubi che ho fatto in Russia son stati più incubi che in qualsiasi altra parte del mondo in cui abbia dormito, e che il bere, in Russia, è stato più bere di quel che è stato bere in Italia…». Ma soprattutto, per chi ancora non l’avesse capito, già dopo 68 pagine Nori spiega urbi et orbi, con totale consapevolezza che, quando era adolescente e giovane, la sua vita non era mica retta dalle decisioni di governi monocolori o pentapartito, semmai era governato (e lui era un suddito felice e riconoscente) da «Bulgakov, Chlebnikov…», e via con un impressionante elenco di geni delle lettere che, a pensarci, sono tutti figli della grande madre Russia.
Poeti e luoghi, con occhi sempre nuovi
Il puzzle, anzi il mosaico, si compone lentamente, ma inesorabilmente. La grandeur imperiale e le code per i beni di prima necessità, l’alcol e le case stracolme di libri, la libertà minata da regimi che non la tenevano molto in considerazione. Le “cartoline” di Nori si susseguono, gli hanno in qualche modo permesso di vedere cose dell’Italia impossibili da vedere, e di costruirsi una sua immagine della Russia, vissuta da studente e da studioso fin dai tempi di Gorbaciov, che non ha smesso di esercitare un fascino speciale su di lui e sulla sua felice e stralunata produzione (torna sempre, la Russia, tra le sue pagine, a cominciare da quelle del suo precedente romanzo, Fare pochissimo, citato anche in questo). Col suo sguardo obliquo, Nori compie ogni volta, anche questa volta, il miracolo di fissare l’attenzione su aspetti che altri non considererebbero minimamente degni di attenzione. Sfilano Dovlatov ed Erofeev, Gogol e Brodskij, Achmatova e Tolstoj, Puskin e Dostoevskij e Nori riesce a guardarli con occhi sempre nuovi.
L’ironia per dire verità scomode
Fatti personali e libri che hanno fatto la storia della letteratura, non solo russa, si intrecciano in un mix mai scontato. C’è Brodskij che vive nel monastero del proprio spirito (Dovlatov dixit), c’è Nori che percorre la prospettiva Nevskij a piedi alle sei del mattino, o che va sulla tomba di Chlebnikov, c’è la Russia del 2017 in cui, più che celebrare il centenario della rivoluzione d’ottobre, si pensa ai mondiali di calcio dell’anno dopo. C’è il ricordo di Italo Calvino, che scriveva di come i russi bevevano solo succhi di frutta (…). C’erano, tra gli anni Sessanta e gli Ottanta dattiloscritti clandestini battuti a macchina molto letti in russia, si leggeva letteratura non pubblicata (samizdat), occuparsi di quella edita era considerato di cattivo gusto. C’è quella lingua stralunata e parlata, che è l’anima della scrittura di Nori, c’è l’ironia attraverso cui dire anche verità scomode. Un viaggio emotivo che vale la pena fare, la lettura di questo libro.
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