L’autore de “L’ordine del giorno” spiega la sua idea di letteratura e racconta il romanzo con cui è stato tradotto per la prima volta in Italia: “È da Ancien Regime credere che la letteratura appartenga alla dimensione della finzione. Nel mio libro si parla di relazioni tra il potere economico e il potere politico sullo sfondo di un’élite europea accondiscendente. La mia speranza è che questa élite scompaia”
«Si dice che la letteratura consenta tutto». È con questa frase che Eric Vuillard (nella foto di Dario Nicoletti, che ringraziamo) ne L’ordine del giorno (137 pagine, 14 euro), edito da e/o, nella traduzione di Alberto Bracci Testasecca, ci introduce in un’assemblea ristretta tra potenti industriali e capi di stato: come sempre, la storia la fanno in pochi. È il 20 febbraio 1933 e in Germania si decidono le sorti dell’Europa: la macchina del nazismo ha bisogno di fondi per proseguire la sua folle corsa al potere e in quel lunedì di nebbia, nello sfarzo imponente del palazzo del presidente dell’Assemblea, l’alta finanza tedesca si mostra solidale. Grazie all’espediente stilistico di una narrazione in terza persona che si insinua nell’inconoscibile vissuto soggettivo dei partecipanti, Vuillard racconta il finanziamento occulto al partito nazista e il servilismo ipocrita dei «venerabili patrizi» dell’industria tedesca, un retroscena poco conosciuto eppure determinante per il trionfo del partito nazista alle elezioni del marzo del 1933. Oggi è possibile ricostruire quel meschino mercanteggiare attraverso la lettura degli atti del processo di Norimberga e di ulteriori testimonianze storiche tra cui memorie e carteggi dei grandi protagonisti dell’epoca. Un esempio magistrale dell’abilità con cui la letteratura riesce a testimoniare la realtà, anche quella negata e di cui non si parla. Dietro questi uomini potenti, che l’autore definisce «macchine calcolatrici», ci sono grandi aziende come Bayer, Opel, Siemens, Allianz, Telefunken, delle quali rappresentano, nella straordinaria descrizione di Vuillard, maschere umane mortali di patrimoni immortali. Si tratta infatti di aziende che esistono tutt’oggi e gestiscono ingenti capitali, alimentati dalla nostra quotidianità: quelle aziende «sono le nostre automobili, le nostre lavatrici, i nostri detersivi, le nostre radiosveglie, l’assicurazione sulla casa, la pila dell’orologio». Con frasi taglienti, raffinate ed estremamente sagaci, Vuillard mostra una compresenza grottesca, quasi comica, e al tempo stesso drammatica tra il solenne momento storico e alcuni episodi che rasentano il ridicolo: la grandezza dell’armata tedesca (la Wehrmacht) è vanificata da un’avaria ai motori e da un immenso ingorgo stradale; la tensione che precede il conflitto mondiale è dissimulata nei lunghi e noiosi pranzi diplomatici dove si discute del famoso campione di tennis Bill Tilden. Tragicomica è anche la politica di pacificazione che si respira in Europa quando nessuno poteva ignorare gli orrori che il führer elucubrava. Come ci ricorda l’autore «le più grandi catastrofi si annunciano spesso a piccoli passi» e nel frattempo il mondo dorme sonni tranquilli. Mentre i politici uniscono i calici in nome di una pace fittizia e ipocrita, al lettore di oggi non sfuggono i bombardamenti futuri che risuonano in sottofondo e di cui nessuno vuole accorgersi. È questa l’assurdità amara che proviamo quando assistiamo a scene che sembrano uscite dalla pellicola Il grande dittatore di Chaplin e che, al contrario, sappiamo essere tragicamente vere. L’ordine del giorno è una lettura storica illuminante e avvincente. Questo libro è un monito: non possiamo accettare compromessi o compiacenze dinanzi al male assoluto. Dobbiamo avere la forza di «impuntare i piedi e urlare». Vuillard è stato ospite della libreria Pagina Dodici di Verona, dove è stato possibile approfondire certi argomenti.
Vuillard, lei ha un interesse particolare per la storia: ha scritto un libro sugli inca, uno sulla rivoluzione francese e uno sulla prima guerra mondiale. In questo romanzo, invece, c’è un salto in avanti. Perché ha sentito questo bisogno, o un’urgenza, di parlare di questo particolare momento storico? Nel romanzo c’è una commistione tra l’orrore assoluto del nazismo e alcune scene da operetta che sfiorano il comico. Ci parli di questa ambivalenza…
«Vorrei esporre delle riflessioni in generale sul romanzo storico evocato da questa domanda. In Francia il genere del racconto si distingue dal romanzo propriamente detto. Il racconto è il nome che la letteratura assume quando si occupa più da vicino del reale. Attualmente c’è un movimento che vede la letteratura, la poesia e l’arte in generale tese verso la ricerca della realtà. Nell’ancien regime la letteratura doveva divertire i potenti ed evocava ideologie legate o al potere o alla religione. Dopo la rivoluzione francese, invece, la letteratura si indirizza alla realtà. La riproposizione del reale inizia con Stendhal e Balzac e questa corrente si distacca chiaramente dalla tradizione letteraria precedente. Permettetemi un paragone con Romeo e Giulietta di Shakespeare, visto che siamo qui nella bella Verona. Quel testo teatrale rappresenta la violenza dei sentimenti amorosi e dunque una realtà psicologica. Così come la commedia dell’arte italiana presenta figure tipo come il padre tirannico, l’avaro, il buffone: i conflitti tra queste figure in realtà sono solamente delle convenzioni letterarie. Il ritorno del reale nella letteratura avviene con la rivoluzione francese. Venendo al tema del comico, il film più importante sul nazismo durante il periodo che precede lo scoppio del conflitto è Il grande dittatore di Chaplin, un film ancora oggi fondamentale sul nazismo e che presenta un forte lato comico. È stato da poco ritrovato un appunto nelle memorie di Chaplin che dice «la storia è troppo grande per il piccolo vagabondo», come se il periodo storico fosse troppo grande per quel piccolo vagabondo che era il personaggio di Charlot. Un uomo come Chaplin che non aveva studiato e non aveva alle spalle una famiglia ricca capisce che questo personaggio non era adatto all’enorme catastrofe del nazismo e del fascismo, una consapevolezza che all’epoca non era così diffusa. Mi viene in mente una foto di Vivian Maier: siamo nel primo dopoguerra e un uomo molto grasso tende un piede fuori dalla propria carrozza mentre un bambino piccolo e magro pulisce la sua scarpa, appoggiata su uno sgabello. Questa scena potrebbe benissimo essere tratta da un film di Chaplin e davvero si può dire che questa è una scena comica perché vediamo un uomo troppo grande dinanzi ad un ragazzo troppo piccolo. Per me questo è un bell’esempio di come l’ironia si ritrovi nella realtà. Infatti quello che è problematico è il disequilibrio sociale che questa scena crea: ovvero che un uomo così grande e capace di lavorare si faccia pulire le scarpe da un ragazzo che dovrebbe andare a scuola. Questo aspetto è comico e tragico allo stesso tempo. Noto una somiglianza tra questa fotografia e una scena che descrivo nel libro e che recupero dalle memorie di Churchill. Ribbentrop è invitato ad un pranzo di commiato a Downing Street e mentre Chamberlain, il primo ministro inglese, riceve un importante messaggio che gli comunica l’avvenuta annessione dell’Austria alla Germania nazista, Ribbentrop non accenna a terminare la conversazione e sembra che stia facendo il possibile per non terminare il pranzo e impedire agli ospiti di accomiatarsi. Invece di alzarsi e reagire dinanzi ad una notizia terribile, il primo ministro è costretto ad ascoltare il chiacchiericcio interminabile dell’ospite. Chamberlain sembra quasi il protagonista troppo timido di un film di Bergman, che ha paura di alzarsi e di interrompere la conversazione. Eppure quell’uomo non è affatto un uomo timido: è il primo ministro inglese e poco dopo inizieranno i bombardamenti più disastrosi che l’Inghilterra abbia mai conosciuto. In un certo senso il comico è la chiave di accesso alla realtà di questa scena, o almeno è quello che ha permesso a me di comprenderla. Il lettore percepisce una dissonanza e qualcosa che lo mette a disagio: è lo stesso squilibro dell’uomo grande vicino al piccolo ragazzo, e che qui invece consiste nel proseguire il chiacchiericcio alla notizia di un’aggressione militare. A Downing street tutto quello che dovrebbe succedere non succede e quello che succede è senza importanza. È come un pezzo teatrale dove non succede niente di importante e invece l’unica cosa importante è scritto in un piccolo appunto che nessuno riesce a leggere. Credo che in fondo questa sia l’immagine della vita sociale: l’immagine di alcune persone riunite a tavola mentre un pezzo di carta circola tra il tavolo, dove ci sono scritte delle cose che forse qualcuno legge ma di cui nessuno parla. In Madame Bovary quel pezzo di carta dice che l’adulterio appartiene a tutti, e lo stesso pezzo di carta è anche in Anna Karenina. In Rousseau invece il contenuto del pezzo di carta si modifica: qui c’è scritto che le società si fondano sulla disuguaglianza. Lo stesso pezzo di carta lo vediamo in Balzac, nei Miserabili di Victor Hugo. L’urgenza di scrivere in questo momento storico forse è data dal constatare che il pezzo di carta che circola oggi è sempre lo stesso, e che per capire certe particolarità della nostra società dobbiamo tornare a leggere questo pezzo di carta».
Quale è il legame che il testo instaura con il presente e qual è il rapporto tra il testo e il lettore? C’è un tentativo di metterlo in allarme descrivendo al lettore degli aspetti poco noti della Storia?
«Non possono esserci ripetizioni della medesima cosa nell’ambito della Storia: il termine Storia indica un’iscrizione nel tempo dove la ripetizione della stessa cosa è impossibile. Si può parlare di tempo ciclico ma non di storia ciclica. Eppure non possiamo esimerci dal notare dei rapporti e dei parallelismi tra elementi che appartengo ad epoche diverse. In fondo il processo di secolarizzazione ci impone di cercare delle cause che vanno indietro nel tempo. Non mi sento qualificato per mettere in guardia il lettore. Forse la messa in guardia sta nel tono molto particolare di alcuni passaggi del libro. Per me la letteratura ha il centro di gravità al di fuori di se stessa, nella realtà. Infatti la letteratura in un certo senso spera sempre nell’azione: Manzoni nell’opera Storia della Colonna infame sperava che la tortura scomparisse e di fatto è scomparsa. Ecco perché il libro di Manzoni è diventato un oggetto di storia: quando parlo di letteratura secolare intendo proprio questo. Spesso abbiamo l’idea che la grande letteratura sia una letteratura eterna, come la letteratura dei grandi classici latini e greci, dove ciò che è immortale non è il contesto storico ma gli aspetti che si riferiscono alla natura umana. Le opere moderne invece sono destinate a scomparire. Nell’introduzione a I miserabili Victor Hugo afferma che “finché i bambini lavoreranno nelle miniere e mangeranno del carbone per ingannare la fame non saranno inutili dei libri come questo”. Qui traspare già il suo desiderio che il libro diventi inutile! E se ci pensate è proprio il contrario dell’augurio dei grandi poeti dell’antichità: Orazio sperava che le sue odi fossero cantate e ricordate per sempre nei secoli. Nel mio libro si parla di relazioni tra il potere economico e il potere politico sullo sfondo di un’élite europea accondiscendente. La mia speranza è che questa élite scompaia».
“L’Hollywood Custom Palace è un noleggio di costumi, affitta al cinema gli abiti di Cleopatra o di Danton, dei giullari medievali o dei borghese di Calais. All’Hollywood Palace si trova tutto, tutti i vestiti smessi dall’umanità, sublime nulla, briciole di glorie disperse sugli scaffali, simulacri di ricordi. […] In quel luogo non è richiesto il dramma vero, bisogna che i costumi siano pronti per le riprese, per la grande messinscena del mondo. E saranno pronti; sono anche più veri che in natura, più esatti di quelli che ammuffiscono nei musei, repliche perfette alle quali non manca né un bottone né un filo e che, come nei negozi, sono disponibili in tutte le taglie. E non devono soltanto essere copie indiscutibili, devono anche essere consumati, bucati, sporchi. […] In fin dei conti a rifare le cose, rimodellarle e sgualcirle non sono né i Panzer né gli Stukas né gli organi di Stalin. No. È laggiù nella California industriosa, tra qualche boulevard al quadrato, all’angolo tra un donut e una pompa di benzina che la densità delle nostre esistenze acquista il tono delle certezze collettive”. Questa scena del suo romanzo dice qualcosa anche del nostro rapporto con la memoria? C’è un modo per scappare da questa riduzione del passato a semplice assemblaggio di souvenir?
«Questa dimensione della finzione, questa rappresentazione della guerra come farsa è un elemento ricorrente nella letteratura. C’è già un elemento di finzione nel nazismo stesso nelle parate e nella propaganda. Abbiamo sempre pensato che la letteratura, il cinema e l’arte appartengano alla dimensione della finzione. Ma questa è una definizione di letteratura che ben si affianca alla concezione di letteratura tipica dell’ancien regime, dove le forme dell’arte erano finalizzate a divertire i potenti. Io invece penso l’esatto contrario: l’arte per me si rivolge alla realtà. Se l’arte dell’ancien regime è così legata alla finzione è perché il potere stesso è finzione. Vediamo un sacco di manifestazioni del potere nelle città. Lo vediamo nelle statue, negli edifici e nell’architettura sontuosa, nelle balaustre e in tutti quegli elementi che costituiscono decorazioni che hanno lo scopo di divertire e non svolgono alcuna funzione. Sono rappresentazioni convenzionali del potere, sono rappresentazioni altere ed eloquenti, e menzognere. Non esiste rappresentazione del potere che non ripudi il realismo. Ancora oggi la letteratura e il potere si affrontano sul tema della finzione. Oggi siamo in una fase post ideologica e dunque assistiamo a una lotta invisibile, come se gli scrittori avessero sottoscritto la tesi del potere e continuassero a produrre opere di immaginazione. Pensate all’immagine di qualche mese fa che mostra il presidente francese e il presidente degli Stati Uniti che piantano un albero mentre tengono una vanga in mano. Faceva uno strano effetto guardare quella foto, come tutte le foto politiche, oggi ormai siamo abituati che quasi non prestiamo attenzione ma se c’è una messa in scena è proprio quella! E questo concetto non è slegato dal passaggio che abbiamo appena letto: magari la vanga l’hanno presa da quel magazzino! Di certo non sono stati i due presidenti a piantare l’albero però nella foto sono loro a
tenere in mano la vanga. Tornando alla foto di Maier che ho citato prima, c’è una differenza che bisogna sottolineare: la foto che ritrae i due presidenti è un montaggio finalizzato alla propaganda, pensata e messa in scena da altre persone, non è una foto documentaristica e artistica. La propaganda ridisegna la realtà e crea una versione rifatta della nostra realtà. Questo ci porta alla
questione fondamentale della propaganda nazista: tutte le immagini che abbiamo del regime nazista prima dell’arrivo degli americani e dei russi sono immagini prodotte proprio dalla propaganda nazista. Questo pone un problema irreversibile: la storia vera è rimasta fuori campo! Una questione molto spinosa se pensiamo agli archivi: alcuni archivi di certe epoche non esistono,
mentre quello che esiste e rimane sono solo le messe in scena del potere. Allora è evidente che noi vediamo delle persone reali ma quelle immagini sono la sola porzione di realtà che è stata scelta dai nazisti per essere messe in scena. Il nostro occhio è falsato per sempre. Per questo siano riconoscenti a Chaplin, perché è riuscito a dare una consistenza a quello che è rimasto fuori
dal campo, ha dato una sua versione dei fatti che sono rimasti esclusi dal racconto della propaganda nazista».
Il rapporto tra finzione e saggio è molto forte in questi ultimi anni, sopratutto in Francia. Quali sono le sue abitudini di lettura? Questa idea della letteratura che si rivolge alla realtà può derivare dal suo percorso di letture? Lei scrive anche delle poesie, e mi sembra più difficile raccontare il genere della lirica con una apertura verso la sola realtà. Che rapporto ha con la poesia?
« Sono un po’ scettico riguardo al genere dell’autofiction, che è un genere che esiste ma chissà quanto durerà. È un genere commerciale dal mio punto di vista. Vorrei riassumere brevemente la nascita della letteratura autobiografica e la sua evoluzione. Uno dei primi capisaldi di questo filone sono Le confessioni di Sant’Agostino: qui assistiamo alla prima forma di soggettività moderna, dove per la prima volta sentiamo un io che ci parla della sua soggettività. Un altro sviluppo fondamentale nella storia di questo genere letterario coincide con la pubblicazione de Le confessioni di Rousseau. Anche qui per la prima volta un autore ci racconta nel profondo quello che succede nella sua interiorità, ed è quasi disturbante leggere questa profondità, una profondità prima di tutto sessuale e relativa ad argomenti molto controversi e personali come il rapporto con la propria sessualità e il denaro. In Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi la soggettività è ancora diversa: una soggettività modesta e dimessa. Durante la rivoluzione francese l’arte era meno diffusa: ci sono momenti storici cruciali in cui noto che l’arte fa un passo indietro, sarebbe infatti quasi paradossale se qualcuno salisse in mansarda e si ritirasse a scrivere mentre fuori si fa la storia. In questo contesto due sono le forme letterarie che continuano a prodursi: le canzoni e i discorsi. La canzone è la forma di poesia più popolare dove si veicolano messaggi anche molto semplici; il discorso è un genere che appare finalizzato a convincere mediante la presentazione di una tesi. È difficile fare un riassunto di tutti gli scrittori contemporanei che amo, cito Pascal Quignard. Discorso a parte merita il romanzo, per me oggi è un genere che presenta alcune mancanze. Se stanno apparendo tutti questi generi diversi, come l’autofiction e la letteratura documentale, è un segno evidente del modo in cui la letteratura sta cercando di arrivare alla realtà attraverso modi alternativi rispetto al romanzo, che vive una fase di crisi e fa più fatica a trovare le proprie vie di accesso alla realtà rispetto a queste nuove forme. È difficile rapportarsi con la realtà perché il mondo di oggi è confuso e inquietante. Da qui la voglia di un rapporto sentito e profondo con la realtà: oggi non abbiamo accesso ai centri del potere che mettono in atto alcune decisioni fondamentali per la nostra vita sociale. Mentre Tolstoj ci raccontava la vita dell’aristocrazia perché semplicemente ne faceva parte e poteva raccontarcelo in modo realistico, oggi lo scrittore non ha accesso a questo mondo. A lui rimangono due soluzioni: può inventare tutto, ma personalmente come lettore non ho alcun interesse a leggere una storia inventata sulle riunioni politiche odierne; oppure tornare alla storia. La storia è una forma di accesso al reale, una risorsa senza la quale non saprei come accedere alla realtà: tutti i documenti e i memoriali che cito nel libro mi consentono di accedere ad una riunione tra potenti, e senza i quali avrei dovuto inventare. Certo, alcuni elementi sono inventati, perché nessuno era presente, neanche gli storici. Ciò che
cambia è la distanza con la realtà: le scienze umane stanno in una posizione di grande distanza rispetto agli eventi, mentre la storia e la letteratura riescono a mantenere una maggiore prossimità e a instaurare un dialogo con il contesto di riferimento. Se pensate a Faulkner vedete che lo scrittore è talmente vicino ai suoi personaggi che ci è caduto dentro, non esiste più un narratore e
le opere sono un susseguirsi delle diverse soggettività dei personaggi. L’invenzione esiste ma quello che cambia è la vicinanza e la distanza rispetto a quello che si racconta. In questo libro ci sono moltissimi dettagli e particolari di alcuni momenti storici, che forse a prima vista possono sembrare innocui ma anche invece ad una lettura più attenta appaiono davvero folgoranti».
Come ha impostato la sua ricerca storica?
Ci sono molti modi di lavorare con i documenti. C’è un metodo da enciclopedista che cerca di leggere tutto quello che si ha disposizione, ma questo vuol dire che non si sa bene quello che si sta cercando. In realtà quando si cerca non si sa esattamente quello che si cerca ma c’è una tensione che ci spinge verso qualcosa in particolare. La ricerca per me comincia da qualche piccolo indizio che risveglia la mia attenzione. L’episodio dell’aristocratico inglese Halifax che, scendendo da un viaggio in carrozza in Germania, non si accorge che l’uomo che lo attende una volta sceso a terra non è un domestico ma Hitler in persona è descritto nelle memorie di Halifax. Sono venuto a conoscenza di questo incontro tra Halifax e il führer mentre guardavo un documentario dell’epoca: sono appassionato di storia e guardavo il filmato per interesse personale. Leggendo le memorie di Halifax durante la stesura del libro ho ritrovato questa scena e la mia attenzione si è concentrata tutta nel contrasto tra questo aristocratico inglese molto magro e quasi immobile e l’imponente Goring, intento a gesticolare animosamente con un grande cappello tirolese in testa. Ho notato un contrasto e spesso ci capita di sentire un disagio e una dissonanza quando notiamo delle differenze molto marcanti, quello che Freud chiamava “il perturbante”. La letteratura ha sempre prestato attenzione ai dettagli e il saper fare letteratura forse è proprio questa attenzione ai dettagli. Già Omero faceva descrizioni molto meticolose sull’abbigliamento dei suoi personaggi, ma anche la poesia moderna del XX secolo può essere definita come una poesia dei dettagli. La scena che ho descritto per me non contiene semplicemente un elemento aneddotico: davanti al contrasto dei due personaggi ci chiediamo se non ci sia qualcosa che li tenga insieme.