Chen He: “Leggetemi per capire i cinesi in mezzo a voi”

Intervista allo scrittore cinese, autore di “A modo nostro”: «Gli stormi di uccelli in volo cercano un ambiente migliore per sopravvivere e alcuni moriranno durante il tragitto. Anche per i migranti le cose vanno così. Anche io ho vissuto momenti difficili, da straniero in Albania e in Canada. Per integrarsi in un paese straniero è fondamentale istruirsi e lavorare sodo, non aspettare un benvenuto»

Fino a qualche tempo fa Chen He non avrebbe detto molto ai lettori italiani, un suono indistinto. Neanche a cercarlo su Google l’avrebbero trovato. C’è un anonimo attore poco più che trentenne, di gran successo, che intasa i motori di ricerca. Adesso è un’altra storia. Il cantante non si schioda dai risultati di Google, ma nelle librerie italiane c’è un libro importante, un documento e una testimonianza, ma anche un bel congegno narrativo, la cui paternità è di un sessantenne cinese trapiantato a Toronto, appunto Chen He. Sellerio non ha soltanto acquistato i diritti per la traduzione in italiano del suo romanzo A modo nostro (345 pagine, 16 euro), ma ha creduto così tanto nello scrittore cinese Chen He, da comperare i diritti mondiali del suo libro, un testo cruciale per comprendere il nostro presente, per guardarlo con occhi diversi. Pubblicato lo scorso giugno, il romanzo di Chen He rivela con una scrittura limpida, ma con profondità la visione del mondo e la vita reale dei tanti lavoratori cinesi che lasciano l’Asia per cercare fortuna altrove. Per la realizzazione di questa intervista è doveroso ringraziare Simona Goretti, che ha tradotto dall’italiano al cinese mandarino e viceversa.

Chen He, il suo romanzo A modo nostro, fra le altre cose, sembra voler dire che la ricchezza della diversità, la conoscenza dell’altro, della sua cultura e delle sue abitudini, al di là degli stereotipi è l’unica strada vera per l’integrazione. Perché nel mondo queste idee trovano ancora tanta resistenza?

«Quando ho scritto A modo nostro non ho pensato di proporre o spiegare il fenomeno dell’integrazione culturale, ho solo mostrato alcune realtà attraverso la descrizione di persone ed eventi. La mia città natale si chiama Wenzhou, si trova nel sud della Cina e ha una storia speciale d’immigrazione all’estero: ci sono infatti molti immigrati di quella città in Francia e Italia. Ci sono cinesi di prima e di diverse generazioni a seguire. Tra i miei amici, molte persone si sono ben integrate nella società in cui vivono, i loro figli grazie ai buoni voti nei loro corsi di studi hanno anche ottenuto buoni posti di lavoro, c’è chi sta facendo carriera, uno di loro ha anche prodotto un film indipendente. Alcuni invece fanno fatica ad integrarsi. Faccio l’esempio di un mio amico che si trovava a Parigi e lavorava in nero ed era un immigrato clandestino: trovato dalla polizia, l’unica cosa che ha potuto fare è stato scappare in Albania. Aveva tre figli all’epoca: uno nato in Cina e due nati a Parigi. Nel 2003 lo vado a trovare a Parigi e la sua situazione era peggiorata: la moglie, i tre figli e moglie e un figlio di tre anni del filgio grande abitavano ancora insieme e gestivano senza molta foirtuna un ristorante cinese. Mi disse che sebbene i suoi figli fossero grandi abbastanza, non ruscivano a rendersi indipendenti e a troare un lavoro e dovevano quindi lavorare ed abitare con i genitori. Questo mi ha fatto pensare ad un problema di integrazione: la mia opinione è che forse l’istruzione abbia fatto la differenza. La prima generazione di immigrati dovrebbe fare del proprio meglio per educare i propri figli in modo che abbiano maggiori opportunità di integrarsi nella società in cui vivono».

Il suo romanzo inizia come un noir, col ritrovamento di un cadavere, ma porta altrove, al traffico di uomini e donne della criminalità organizzata, alle contraddizioni della rivoluzione culturale cinese, alla diaspora di tanti suoi connazionali in Europa fra mille espedienti, ma senza luoghi comuni. Questo suo sguardo “altro” aiuta noi “occidentali” a comprendere davvero voi cinesi?

«Ho sempre pensato che un romanzo debba divertire e interessare un lettore. La letteratura contemporanea prende spesso in prestito lo stile dei romanzi noir, quella che racconto, naturalmente, non è una storia di detective, ma parla di questioni di conflitto tra ideale e realtà di un gruppo di cinesi, di sopravvivenza e di morte. Sento che, in una certa misura, il romanzo può aiutare gli occidentali a capire più a fondo i cinesi, soprattutto i cinesi d’oltreoceano. L’immagine dei cinesi che di solito hanno gli occidentali è quella veicolata dai film di kung-fu e e di arti marziali in generale. Gli scrittori che vivono in Cina non hanno familiarità con la vita dei connazionali che vivono all’estero, non avendo esperienze personali a riguardo non possono descriverli. Io sono un immigrato che abita all’estero ormai da venti anni, anche se torno spesso in Cina. Quello che racconto nel romanzo è fondamentalmente ciò che ho vissuto. Sono cresciuto durante la rivoluzione culturale, sono andato poi in Albania dove ho anche sperimenanto sulla mia pelle situazioni pericolose, soprattutto nel 1997, e dove ho conosciute persone implicate nel contrabbando, prima di emigrare in Canada. Per questo motivo penso di riuscire a raccontare i cinesi d’oltremare e la loro situazione reale, a entrare nel loro mondo interiore».

Crede che si parli molto della portata, delle conseguenze dei flussi migratori, ma forse troppo poco delle motivazioni che spingono centinaia di migliaia di persone ad abbandonare il loro paese?

«Questo è un argomento molto delicato, difficile da trattare sinteticamente. Quello che vorrei dire è che l’immigrazione è per certi versi una cosa triste: se la vita andasse bene, poche persone deciderebbero di lasciare le proprie famiglie e la propria terra per cercare un riparo in posti che non conoscono. Quando si vedono in cielo gli stormi di uccelli che migrano, tutti pensano che sia un bello spettacolo. In realtà questi uccelli stanno cercando un ambiente migliore per poter sopravvivere e alcuni membri dello stormo moriranno durante il tragitto. Anche per i migranti le cose vanno così: molti sono forzati a prendere questa decisione. Se le condizioni di vita nei loro luoghi d’origine migliorassero, il numero dei migranti diminuirebbe».

Perché ha lasciato la sua patria? Si è mai sentito uno straniero indesiderato o non assimilato, come capita a certi suoi personaggi?

«Quando ho raggiunto la maggiore età, la grande Rivoluzione Culturale cinese era già finita. Avevo già iniziato a scrivere romanzi ed ero convinto che uno scrittore avesse il dovere di rimanere nella propria patria. Quindi non avevo mai pensato ad andare a vivere in altri paesi. Ma arrivato ai trentacinque anni ho avuto la sensazione di vivere una vita mediocre, e ho cominciato a maturare la decisione di andare a vivere all’estero, alla ricerca di una nuova vita. Nello stesso periodo ho avuto la possibilità di andare in Albania per un viaggio d’affari, e infine rimasi a vivere a Tirana per cinque anni. All’inizio del 1999 sono andato in Canada e, certo mi sentivo un immigrato, e come tutti gli immigrati in quegli anni ho attraverso momenti difficili. Per esempio nel 1998 ero a Tirana e sono stato rapito e tenuto in un rifugio antiaereo sotterraneo per un mese, con la richiesta di un riscatto. Alla fine per fortuna è arrivata la polizia. Credo che la cosa più importate per l’integrazione di un immigrato è che si dia da fare, invece di aspettare che sia la comunità locale a dargli il benvenuto. Quando arrivai in Canada non conoscevo nessuno, ma avevo comunque deciso di iniziare un business di import-export. Per arrivare al mio obiettivo ho accettato un lavoro come magazziniere, un lavoro trovato tramite un annuncio di giornale. Lavavo anche i piatti per il proprietario della ditta. Ma in quel periodo ho iniziato a fare esperienza del lavoro di import-export, ho potuto conoscee i regolamenti del settore e ho potuto ben presto creare il mio business. Dopo dieci anni sono diventato uno dei cinesi di maggior successo, a Toronto, nel campo dell’import-export. Ma il mio sogno non era quello di fare business. Non appena le condizioni finanziarie mi hanno permesso di mantenere bene la mia famiglia, mi sono sempre più dedicato al mio sogno di diventare uno scrittore a tempo pieno. Quindi, per far avverare un sogno, bisogna lavorare sodo e non aspettare che qualcuno faccia tutto per noi».

Che effetto le fa tornare in Italia e ricevere, nell’ambito del Festival delle letterature migranti, la cittadinanza onoraria di Palermo?

«Il mio romanzo è stato scoperto e pubblicato dalla casa editrice Sellerio in modo del tutto occasionale. Mai avrei pensato a una così buona accoglienza da parte dei lettori italiani, o ad essere insignito della cittadinanza onoraria da parte del sindaco di Palermo. Cose del genere mi fanno credere che le storie di uno scrittore immigrato possono emozionare tutto il mondo, essere di portata universale. Vengo in Italia per la seconda volta, in Sicilia per la prima. Prima di adesso ho conosciuto la bellezza della Sicilia da due film, Il padrino e Malena, e ho sempre desiderato visitarla. Alla fine il sogno è diventato realtà. Mi piace davvero molto l’atmosfera classica e tranquilla di Palermo e sono sicuro che questo viaggio sarà per me indimenticabile». (Questa intervista è stata pubblicata in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)

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