Intervista all’esordiente partenopeo (che ora vive a Londra) Alessio Forgione, autore di “Napoli, mon amour”, storia di un giovane rimasto senza lavoro e del suo amore, fra angoscia e passione, per Nina: “L’uso del dialetto? Delicato ma non esuberante. Napoli lenta, in Italia mi sentivo prigioniero. Avere un’occupazione non dovrebbe essere un vanta da mostrare sui social. Chi non ce l’ha vive frustrazione e condanna degli altri, l’ho vissuto»
Alessio Forgione, londinese di adozione ma di origine napoletana, pubblica il suo primo romanzo e sale a bordo di NN editore. Un altro notevole esordiente italiano per la casa editrice milanese che oggi si impone sul mercato editoriale anche per la grande attenzione rivolta al panorama italiano contemporaneo.
Napoli Mon Amour (223 pagine, 16 euro) di Forgione è la storia di Amoresano, un ragazzo napoletano rimasto senza lavoro che trascorre le sue giornate vagando tra il centro storico di Napoli «nella speranza, vana, che accadesse qualcosa di nuovo», alla ricerca del proprio posto nel mondo in una città che non lo vuole e capace solo di offrire colloqui di lavoro umilianti e avvilenti. L’amore per Nina, che si presenta come quella Lola di Nabokov che lei adora, lo trascina in una realtà dolceamara, commista di passione e d’angoscia per il desiderare troppo quando si ha troppo poco. Con Alessio Forgione parliamo del suo libro, di cosa rappresenta oggi il lavoro in Italia e di come la scrittura e la letteratura possono renderci persone migliori.
Forgione, quanto c’è di lei in questo libro e quanto, invece, ha dovuto allontanarsi da se stesso per riuscire a scrivere?
«C’è moltissimo di me in questo romanzo, c’è troppo di me e non sono riuscito a distaccarmi. La storia che si svolge in uno spazio temporale molto limitato è il riassunto di quasi 10 anni della mia vita. Amoresano è il nome del mio coinquilino a Londra. Mi ricordo di avergli chiesto se potevo usare il suo nome nel mio libro, per me era quello giusto, un nome quasi biblico e buffo allo stesso tempo. E lui era entusiasta. Molti mi hanno fatto notare che questo nome è particolarmente azzeccato per il rapporto del protagonista con l’amore, ma non l’ho scelto con questo proposito».
Nel libro il lavoro è un ago della bilancia nella vita del protagonista: è ciò che potrebbe risolvere una volta per tutte la situazione o, al contrario, rovinare tutto. Quanto il lavoro definisce una persona al giorno d’oggi? Amoresano guarda gli altri e «pensa che chi ha un lavoro stia meglio di lui, perché loro hanno un posto». Oggi ho la sensazione che ciò che definisca una persona sia il lavoro e non le sue qualità, c’è la sensazione che chi è senza lavoro sia una nullità. Che cosa ne pensa?
«Io non giudico una persona dal lavoro che svolge, a me interessa com’è una persona e quello che ha vissuto. Oggi invece ti giudicano per il lavoro che fai: se non lavori sei l’ultima ruota del carro, non hai valore e non puoi essere considerato. Da qui la frustrazione e la condanna degli altri. Ho vissuto questa situazione in prima persona, mi vergognavo molto della mia situazione. Puoi svolgere un lavoro umile eppure essere il miglior poeta italiano, così come puoi rivestire l’incarico di dirigente di un’azienda importante ed essere un ignorante irrecuperabile. Il problema fondamentale è che oggi il lavoro è diventato uno status symbol: le persone si vantano perché stanno lavorando, su Facebook si pubblicano foto e messaggi di vita lavorativa, per far vedere che si ha un lavoro e che si sta lavorando. A Napoli il lavoro si chiama “fatica”: a lavorare si va per pagarsi il pane e per pagare le bollette, non per vantarsi».
Il giudizio del narratore sulla società e su Napoli è molto duro. Cosa la rattrista di più di questa realtà che circonda il protagonista?
«Nella realtà di Napoli non mi ritrovo. Personalmente mi infastidiva molto la lentezza della città dove per ogni cosa ci voleva molto tempo; forse questo è un tratto tipicamente italiano, basta pensare alla burocrazia e alle attese infinite! A meno che tu non conosca qualcuno, così si che ti si aprono le porte. A Londra noto una maggiore comodità, una maggior velocità nell’ottenere le cose e nel godere di servizi: lì mi sento un consumatore di servizi e sento che le imposte che pago mi rendono un vantaggio. In Italia mi sentivo prigioniero».
Gli altri personaggi della storia sono persone reali oppure sono personaggi inventati? E se sono inventati, aveva già ben presente la trama mentre scriveva oppure si è lasciato guidare dai suoi personaggi?
«I personaggi sono reali, alcuni episodi sono in parte diversi ma ispirati al reale. A volte i personaggi si modificano, come seguissi un calco per una caricatura. Direi che sono delle caricature delle persone reali, non perfettamente aderenti al vero ma nemmeno inventati. Avevo un’idea mentre scrivevo ma mi sono impegnato molto per tenerla sotto controllo!».
Il dialetto è un aspetto che affiora dal testo senza appesantire la lettura. Dal punto di vista stilistico come avete lavorato sul testo? Esistevano versioni precedenti del libro dove il dialetto napoletano era più accentuato?
«Mentre scrivevo avevo scelto di mantenere un registro italiano e di far trasparire una costruzione napoletana della frase. Si vede proprio dal verbo “tenere” che uso spesso nelle frasi e quasi sempre nei dialoghi. Avevo un grande esempio a cui mi ispiravo: La Capria è molto delicato nell’utilizzo del dialetto, la scrittura presenta un tratto napoletano anche se non ostentato. Questa delicatezza mi è sempre piaciuta e ho cercato di seguire la stessa linea. Ad esempio, nel libro scrivo che Amoresano decide di accompagnare l’amico Russo al bar e dico “andava lì per la situazione”. In italiano questa espressione non esiste, eppure è molto simile all’inglese “situation” e rende l’idea che in un posto sta accadendo qualcosa di interessante. Ho pensato spesso che fosse una follia, una follia dialettale, ma scriviamo anche per noi stessi e non solo per gli altri! Le sfumature delle lingue per me hanno un significato importante: per esempio il fatto che a Napoli il lavoro si chiama “fatica” la dice lunga su molte altre cose. Volevo il dialetto nel mio libro, ma delicato e non esuberante».
Parliamo delle tue abitudini di lettura. In alcune interviste hai citato alcuni dei tuoi scrittori preferiti e molti di questi sono citati nel libro: Celine, La Capria, Fitzgerald, Hemingway, Faulkner. Penso ad Amoresano mentre leggeva e all’attenzione di questo personaggio nel valutare e giudicare i libri che stava leggendo, a volte prova a cambiare elementi della frase che non gli piacciono. Amoresano scorge nelle situazioni quotidiane molti elementi che richiamano le sue letture. Si ritrova in queste abitudini?
«Mentre leggi sei lì per viverti il momento e sì, anche per giudicare di quello che leggi. “Ferito a morte” di La Capria per me è un libro perfetto, e non cambierei una virgola di quel libro. In tanti libri invece penso a come avrei potuto cambiare una frase o un paragrafo, questa possibilità c’è sempre nella mia testa mentre leggo. È vero, nel romanzo cito moltissimi scrittori quando affronto delle situazioni particolari: nella mia testa interpreto quella situazione come l’evento descritto in un libro che ho letto e magari rispondo come uno dei personaggi, lo dico anche, dico “questo lo ha detto Celine!” Mi diverte molto. A volte mentre leggo sono talmente immerso nella lettura che mi sfuggono dei dettagli della trama, ed è gusto così e non mi importa, perché in quel momento ero lì, ero presente e completamente rapito dalla lettura. La lettura poi si ribalta nella scrittura. Scrivo perché lo sento e perché voglio farlo. E sono consapevole di perdere moltissime ore di sonno. Ma se non leggo o non scrivo inizio ad essere nervoso, preferisco dormire meno ma leggere e scrivere. Amoresano scrivendo diventa consapevole che la situazione che sta vivendo non gli piace, che deve agire per superare l’impasse, capisce che non può stare immobile ad aspettare che le cose succedano».
La scrittura dunque porta consapevolezza. Sei più consapevole della tua esperienza personale dopo aver scritto questo libro?
«Spero di esserlo, spero di mettere il libro in un cassetto, di tirarlo fuori dopo qualche anno ed essere pienamente consapevole di quello che ho vissuto, di quello che ho fatto e che non ho fatto. La scrittura è terapeutica, è un dirsi le cose ma in modo perentorio».
Un’ultima domanda. Qual è il ruolo della letteratura rispetto a questa realtà di cui ti fai interprete nel libro?
«Non so ancora darmi una risposta esatta. Giro per l’Italia e noto che le persone sono spesso sgarbate, parlano con frasi nette e violente. Poi entro in libreria e la gente è più cordiale e gentile. La lettura rende migliori perché sviluppa empatia, comprensione, disponibilità. Personalmente mi ha aiuto moltissimo in alcuni casi: leggevo di alcune situazioni poi finite male e ho imparato ad anticipare le conseguenze disastrose delle mie azioni, pensavo “No, non lo faccio perché ho già letto come va a finire”. Con la lettura tu entri nella vita di qualcuno, e lo scrittore nella tua, da questa esperienza nasce una disponibilità. Sono sicuro di questo, le persone dovrebbero leggere di più!».