L’improvvisa possibilità che tutto cambi, secondo Lahiri

Un’esistenza solitaria, un velo di tristezza, una lingua precisa nella sua finta semplicità. Con “Dove mi trovo” la scrittrice indiana, naturalizzata statunitense, scavalca un altro confine, anche linguistico, scrivendo in italiano. Racconta di una donna costretta a lasciare il suo piccolo mondo familiare per insegnare negli Stati Uniti…

Del rapporto con una città, del fluire mutevole delle cose, del continuo interrogativo su se stessi, sulla propria appartenenza a un luogo: di tutti questi nodi racconta Dove mi trovo (163 pagine, 15 euro), il nuovo romanzo dell’indiana naturalizzata statunitense Jhumpa Lahiri, edito da Guanda. Un libro che prende il via da un’esistenza piccola, e che quasi senza una trama, e con una manciata di personaggi abbozzati sullo sfondo, riesce a incrinare le certezze della quotidianità fino a svelare una piega malinconica tipicamente umana, consapevole e calata nel tempo e nello spazio.

Un romanzo italiano

Una città senza nome, come la protagonista: una donna, una città, il legame che le unisce. Tratti generici e insieme dettagli rivelatori. Forse è Jhumpa Lahiri stessa, forse è Roma, città dove ha abitato a lungo, ma quelli autobiografici sono solo fili che si intuiscono leggendo. Il testo ha una centralità importante: è il primo romanzo scritto da Jhumpa Lahiri direttamente in italiano. Una scelta linguistica significativa, perché scavalca un confine e apre un’altra porta, una nuova frontiera nella ricerca incessante di un’autrice già coinvolta in vite e mondi differenti. In questa storia a prevalere è l’amore per l’Italia: lo rivela la lingua, lavorata e precisissima nella sua finta semplicità, parole selezionate, aggettivi e verbi nitidi, e lo lascerà trasparire anche la trama, che lentamente e con una malinconia crescente svelerà un abbandono di quella città di cupole ed estati deserte che ricorda così tanto la capitale. E se il romanzo si apre con una citazione di Svevo, l’attaccamento agli scrittori italiani è stato confermato dalla stessa Jhumpa Lahiri durante la presentazione torinese del libro, quando ha raccontato di aver portato con sé e letto durante il volo che la portava dall’Italia agli Stati Uniti Il sistema periodico di Primo Levi, nella sua edizione italiana.

Tessere di una malinconia

Dove mi trovo è un romanzo fatto di tessere, piccoli racconti che si chiudono a ogni capitolo e che inseguono il senso del titolo: dove mi trovo. Non una domanda, ma un’affermazione calcata in un presente dove la protagonista, una donna sola forse per sfortuna, forse per scelta, vive la propria esistenza solitaria intrecciando lo svolgersi quotidiano delle giornate con pensieri e riflessioni che non si distaccano mai troppo da una modalità “minore”, un velo di tristezza. È la malinconia della consapevolezza, quella della propria esistenza che si svolge senza troppi colpi di scena e sa stare dentro i propri binari e routine, quella dell’improvvisa possibilità che tutto questo cambi, dando vita a scenari inaspettati. È quel che accade: la protagonista vince un posto da insegnante negli Stati Uniti ed è costretta a lasciare la città, la casa, un piccolo mondo familiare.

«Perché stamattina impiego così tanto tempo per uscire di casa? Come mai lo smarrimento anche qui? Mi riesce sempre più duro il risveglio, bisogna subito agire, reagire, muoversi, concentrarsi. Ma oggi, mentre mi preparo senza fretta per una giornata qualsiasi, perdo il filo di me stessa, sono indecisa davanti al guardaroba pur fregandomene della scelta. Faccio colazione in piedi senza godermela, mi taglio una mela senza mettere gli spicchi su un piattino, non so se ho voglia di un secondo caffè o no, mi sento irrequieta, non so dove collocarmi. Passano quindici minuti, passa un altro quarto d’ora».

Un continuo cercarsi

Il confine linguistico diventa così un confine reale, l’abbandono di un mondo a favore di un altro, lontano, che impedirà di tornare spesso e costringerà quelle ricorrenze quotidiane, quei piccoli rituali, a svaporare nella memoria. Si riattiva il viaggio: valigie, traslochi, case che si svuotano, le certezze sono sabbia che sfugge dalle mani. Sulla tensione dell’andare via, sull’inquietudine dello spostarsi, è costruito l’intero romanzo. È una ricerca di identità incessante, un continuo guardarsi agire, come da fuori, e domandarsi, vedendosi cercarsi, pensarsi nella relazioni con luoghi fatti propri e, non trovandosi più, spaventarsi, intuire ombre, ancora cercare di indagarsi, infine capirsi e capire così dove ci si trova.

«Perché alla fine l’ambientazione non c’entra nulla: lo spazio fisico, la luce, le pareti. Non importa che sia sotto un cielo o sotto la pioggia o nell’acqua limpida in estate. In treno o in macchina, sull’aereo tra le nuvole sconnesse, sparse come un branco di meduse. Altro che ferma, sono sempre e soltanto in movimento, in attesa o di arrivare o di rientrare, oppure di andare via. Una piccola valigia ai piedi da fare, da disfare, la borsa in grembo, qualche soldo, un libro infilato lì dentro. Esiste un posto dove non siamo di passaggio? Disorientata, persa, sbalestrata, sballata, sbandata, scombussolata, smarrita, spaesata, spiantata, stranita: in questa parentela di termini mi ritrovo. Ecco la dimora, le parole che mi mettono al mondo».

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