Il grande scrittore spagnolo, nel romanzo “Come un’ombra che declina” si confronta, fra verità e immaginazione, con la storia dell’assassino di Martin Luther King: la sua fuga la condurrà per dieci giorni a Lisbona. Nelle stesse strade quarant’anni dopo Munoz Molina rifletterà sulla scrittura fra passione e saudade
All’una e un quarto di notte, un viaggiatore sulla quarantina con abito scuro e impermeabile giunge all’aeroporto di Lisbona, con un volo proveniente da Londra. Ha attraversato gli Stati Uniti. Memphis, Atlanta, Cincinnati, Detroit fino a varcare la frontiera canadese. Il ricercato numero uno che voleva far perdere le sue tracce. Quarant’anni dopo, uno scrittore, Antonio Muñoz Molina, decide di ripercorrere le stesse strade calpestate da due uomini: il fuggitivo e se stesso. Nel gennaio del 1987, poco più che trentenne, Antonio Munoz Molina, con il Lusitania Expreso, partì dalla stazione Atocha di Madrid per raggiungere la capitale portoghese. «I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba inaridisco», così recita il salmo 102 che ha ispirato il titolo del nuovo romanzo, Come ombra che declina, uscito per l’editore 66thand2nd e tradotto da Carlo Alberto Montalto.
Un fuggitivo a Lisbona
Siamo nel 1968, quando dalla finestra di una pensione di Memphis, parte un colpo di fucile e Martin Luther King è a terra. Il suo assassino, James Earl Ray, per due mesi riuscirà a fuggire alle autorità e con documenti falsi, raggiungere l’Europa, dieci giorni li trascorrerà nella città di Lisbona.
«Si nutriva di caffè solubile riscaldato con una lampada sommergibile, di latte in polvere, di fagioli in scatola, di patatine fritte intinte nella senape o nel condimento dell’insalata Kraft. Frequentava le tavole calde più a buon mercato, mangiava hamburger con extra di cipolle, bacon, ketchup e formaggio e ingurgitava manciate di patatine fritte. Qualcuno ricordava con certezza che fosse mancino, mentre altri erano sicuri di averlo visto usare sempre la mano destra per firmare e fumare. In alcune descrizioni della polizia ha i capelli castano chiaro, in altre neri e brizzolati sulle tempie. Aveva una piccola cicatrice in mezzo alla fronte e un’altra sul palmo di una mano. Lo ricordavano che fumava, con la sigaretta nella mano destra sul cui anulare spiccava una pietra verde scuro incastonata nell’oro. Eppure non aveva mai fumato né portato anelli».
Fantasticando sui rapporti dell’Fbi
Antonio Munoz Molina si immerge nella vita del fuggitivo, bastano pochi secondi su Internet per accedere a file contenenti informazioni su quasi tutto quello che ha fatto, i posti in cui è stato, i reati commessi, le carceri dove l’hanno rinchiuso, perfino i nomi delle donne con cui è andato a letto o ha bevuto qualcosa al bancone del bar. Nei rapporti dell’FBI c’è tutto e Munoz Molina fantastica su quei dettagli che i fascicoli, oggi resi pubblici, gli forniscono. «Perchè anche la più clandestina delle vite lascia dietro di sè una traccia indelebile».
Vent’anni dopo, nel 1987 è Munoz Molina a scendere dal treno nella capitale portoghese in cui ha deciso di ambientare gran parte del suo romanzo. Il giovane scrittore è alla ricerca di un’identità in cui far approdare approdare la sua scrittura. “Anche se ha la sensazione di abitare in mondi transitori e distanti tra di loro, nessuno dei quali sente particolarmente suo”.
Un “fantasma” per le strade
Nei dieci giorni a Lisbona, James Earl Ray soggiornerà all’Hotel Portugal, vagabonderà per le strade di Lisbona con l’ansia di essere scoperto, controllerà ossessivamente i giornali stranieri cercando notizie che lo riguardano e non mancheranno gli articoli sulla sua fuga e fotografie che lo ritraggono, ma risalenti sempre a troppo tempo prima, perché qualcuno lo possa effettivamente riconoscere. Tenterà di ottenere un visto per l’Angola (che è anche il nome di un penitenziario del Profondo Sud degli Stati Uniti), anche se sarà un tentativo a vuoto.
«Lisbona era guardare la luce dall’ombra e gli spazi aperti da un angolino, trovare l’esotico accanto al provinciale, i volti scuri e i colori e gli odori dell’Africa di fianco alle pasticcerie e i chioschetti ambulanti di caldarroste, aromi che si dissolvevano nell’aria un po’ più fredda di fine pomeriggio. In praça do Rossio, dal marciapiede assolato della Pastelaria Suiça, scorsi la curiosa torre di filigrane metalliche dell’ascensore di Santa Justa. Entrarci era come salire su un artefatto futurista del Diciannovesimo secolo, in una macchina volante di Jules Verne, nella cabina del sottomarino del capitano Nemo. Nella parte più alta del suo belvedere, appoggiato al parapetto, vidi di fronte a me la collina dell’Alfama, le torri cubiche del castello di São Jorge sul suo pendio boscoso, le ombre verticali dei cipressi, le alte mura dei giardini, il fiume sullo sfondo, la lucentezza ramata del sole al tramonto. Mi sembrò di vedere la collina dell’Alhambra a quella stessa ora del pomeriggio, dal belvedere di San Nicolás. Perfino la torre del convento di Graça mi ricordava quella di Santa María dell’Alhambra. L’orizzonte del Tago era piano e nebbioso come quello della Vega. Stavo vedendo ciò che avevo immaginato mentre buttavo giù la prima stesura del romanzo, la mia città miraggio, una Granada con il mare».
La luce bianca che acceca e la foschia del fiume
La Lisbona che fa da scenario alle vie dei protagonisti è una città dalla luce bianca che fa male agli occhi, attenuata dalla foschia del fiume. «Arrivare in quella città era stato come fare un salto nel tempo: i negozi seminascosti di tessuti o alimentari e la gente che parlava ad alta voce nelle piazze». La Lisbona che conosce Munoz Molina, a gennaio, «è una nebbia fredda come un gas leggerissimo e il brillio umido del selciato e delle pietre bianche dei marciapiedi lisce e levigate, l’odore di carbone e il fumo che fuoriesce dai comignoli di ottone dei chioschi ambulanti di caldarroste». Il finale della storia di James Earl Ray è tutto racchiuso nell’immaginazione di Antonio Munoz Molina, che si ritrova quarant’anni dopo a ripercorrere le strade di Lisbona, riflettendo sul ruolo dello scrittore, sulla potenza della scrittura e lasciandoci un sentimento d’amore, misto a passione e con il sapore della saudade sulla punta della lingua. «Ogni finale è un preludio e per capirlo ci vuole tempo».
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