Intervista a Rosella Postorino, autrice de “Le assaggiatrici”: «Il mio romanzo ragiona proprio sul fatto che ogni cosa del mondo è contraddittoria, niente è mai definitivamente sano o giusto. Da piccola leggevo perché mi piaceva e continuo a farlo perché ne ho bisogno. Scrivo per lo stesso motivo: non posso farne a meno»
Ha scritto uno dei libri più importanti della stagione, se n’è lasciata coinvolgere, s’è messa in gioco «senza riserve». Rosella Postorino (nella foto di Carlo Gianferro), calabrese di nascita e romana d’adozione, ha scritto un romanzo, Le assaggiatrici (qui la nostra recensione), pubblicato a inizio 2018 dall’editore Feltrinelli, apprezzato in Italia e all’estero: «Mi interessava indagare il crinale sottile tra colpa e innocenza», racconta. E poi allarga lo sguardo al senso della scrittura, all’importanza della lettura, che è anche, ma non solo mestiere, visto che è editor di Einaudi Stile Libero. Ne Le assaggiatrici Postorino si muove tra le pieghe di una delle tante storie, delle tante infamie del Terzo Reich, sviscerandola con occhio letterario, ma anche con un certo coinvolgimento.
Postorino, perché ha scelto di raccontare questa storia?
«Quattro anni fa sono inciampata per caso nella vicenda di Margot Wölk, una berlinese di 96 anni che raccontava per la prima volta di essere stata, durante la giovinezza, un’assaggiatrice di Hitler. La sua storia mi ha colpita e, anche se non sono riuscita a incontrare quella donna, pur avendola cercata per mesi, perché quando finalmente l’ho trovata è morta, ho deciso di scrivere un romanzo d’invenzione a partire dalla sua testimonianza. Come in tutti i miei libri, mi interessava indagare il crinale sottile tra colpa e innocenza: la mia protagonista diventa colpevole proprio dentro la condizione di vittima; è costretta a rischiare di morire ogni giorno per il Führer, senza essere una nazista, e tuttavia in questo modo diventa un ingranaggio di un sistema disumano come il Terzo Reich: il suo ruolo contribuisce a salvaguardarlo. Scrivendo di lei, mi interessava esplorare l’ambiguità delle pulsioni e dei comportamenti umani, l’attaccamento alla vita come forma di condanna».
Il nome della protagonista (Rosa) forse non è casuale, si chiama quasi come lei…
«Si chiama come me all’anagrafe: dando alla protagonista il mio nome volevo mettermi in gioco senza riserve, provando a immaginare che cosa avrei fatto io se mi fossi trovata in uno stato di necessità come Margot Wölk, con tutte le mie meschinità, le mie paure, le mie colpe».
Cercava un equilibrio tra verità storica e invenzione narrativa? Come è riuscita a coniugare i due aspetti?
«La verità storica è indispensabile per costruire uno scenario credibile, ma la lettura di saggi, memoir, diari, lettere, romanzi legati alla seconda guerra mondiale e al Terzo Reich è stata fondamentale soprattutto per comprendere i “sentimenti” dell’epoca. Dopodiché, tutto questo è stato messo al servizio di una storia inventata che doveva funzionare narrativamente, attraverso i personaggi messi in scena, che devono “esistere” davvero sulla pagina, attraverso le relazioni che si intrecciano fra loro, attraverso gli interrogativi che la storia stessa pone alle loro e quindi anche alle nostre vite».
Scrivere e pubblicare le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita?
«Semplicemente, sognavo di essere una scrittrice, e lo sono. Quindi sono felice di essere diventata chi credevo di dover essere. Una volta ho intervistato per telefono Agota Kristof, un’autrice che amo molto, proprio sul tema della scrittura che è allo stesso tempo veleno e cura. Ma in fondo, a pensarci bene, Le assaggiatrici ragiona proprio sul fatto che ogni cosa del mondo è contraddittoria, niente è mai definitivamente sano o giusto, Rosa dice: nemmeno l’amore».
Le assaggiatrici è stato venduto è stato venduto negli Usa, in Spagna, Grecia, Francia, Olanda e Brasile. Essere tradotti è una responsabilità in più?
«È stato venduto in 14 Paesi stranieri, in realtà. Più che la responsabilità (perché dovrebbe essere maggiore? in che senso?), io sento la gioia di poter essere letta da persone che appartengono a culture lontane, anche molto, dalla mia (per esempio in Cina, in Corea o nei Paesi di lingua araba), e mi domando che cosa quella storia significherà per loro, che cosa faticheranno eventualmente a comprendere e che cosa invece li attrarrà di più, quali sono insomma i tratti di “universalità” de Le assaggiatrici».
Quale è l’insegnamento che ritiene più importante fra quelli che le ha dato la letteratura, da lettrice e da scrittrice?
«Non credo che la letteratura debba dare insegnamenti. Da piccola leggevo perché mi piaceva, semplicemente, e continuo a farlo perché ne ho bisogno: perché mi calma; perché mi fa sentire meno sola; perché trovare un buon libro mi dà euforia, mi fa venire voglia di tornare lì, proprio in quel posto inventato dall’autore, se si tratta di un romanzo, o in quella catena di ragionamenti che mi sfida e riesce a darmi adrenalina – può sembrare sciocco o ingenuo, ma è così – se si tratta di un saggio (per esempio di filosofia); perché mi sento vicina all’autore o all’autrice, quando il libro mi tocca particolarmente, e mi piace sapere che nel mondo esiste quella persona, che scriverà altri libri, avrà altre cose da dirmi, e io potrò leggerle; perché non riesco proprio a addormentarmi se non leggo; perché i libri rendono la mia vita piena: di storie e di personaggi; perché mi consentono di allargare la mia esperienza senza dover fare tutte le esperienze possibili (anche bucarmi o prostituirmi o uccidere, per esempio) e in questa maniera mi aiutano a capire il mondo e gli altri e me stessa; perché quel che so degli esseri umani l’ho imparato in buona parte dai libri – spesso mi capita di incontrare persone che hanno enormi difficoltà a capire ciò che provano, ciò che stanno vivendo, o che mostrano una ridotta elasticità di pensiero rispetto alla complessità delle azioni e reazioni umane, sebbene siano persone intelligenti o addirittura esperte in alcune discipline, e di fronte a loro ogni volta penso: dovresti leggere più romanzi, ma come diavolo fai a vivere senza leggere romanzi? Insomma, nonostante la lettura sia diventata per me anche un lavoro, non ho perso l’entusiasmo infantile che mi ha trasformata in lettrice. Scrivo per lo stesso motivo: perché non posso farne a meno».
Quali sono gli autori ai quali guarda con maggiore attenzione? Un piccolo, non esaustivo, catalogo, dei suoi punti di riferimento?
«È davvero impossibile fare un catalogo, ogni volta mi trovo in questo imbarazzo. Di solito butto lì quattro nomi, oggi invece ho deciso di no. Penso che sarebbe bello se invece di farmi questa domanda lei provassi a sentire dentro le mie pagine i miei amori letterari – non è detto debba indovinare, anzi. Per me diventerebbe invece uno stimolo. Ad esempio, del mio primo romanzo scrissero che la mia scrittura ricordava quella di Magda Szabó: io non l’avevo mai letta, ma che meravigliosa scoperta è stata per me! Poi l’ho letta tutta. Quindi ribalto la domanda: l’eco di quali autori rintraccia nei miei libri?».
Certo sguardo di Primo Levi e alcune dinamiche di un libro come Il giardino delle bestie di Erik Larson. Che peso dà ai premi letterari? Quanto la emozione essere in fondo al Campiello?
«I premi letterari sono un modo per avere visibilità, dunque sono utili. Il Campiello è uno dei più importanti premi italiani, quindi mi sento onorata, grata, felice».
L’ultimo libro che ha letto per lavoro? L’ultimo che ha letto per piacere?
«Per lavoro io posso leggere anche un manoscritto al giorno, e se mi pare non funzioni tendo ovviamente a dimenticarlo. Per piacere sto leggendo ora Berta Isla di Javier Marías, uno degli autori che amo di più, Mio assoluto amore di Gabriel Tallent, perché Silvia Avallone mi ha detto che è bellissimo, e Sangue giusto di Francesca Melandri, perché penso sia un’autrice molto brava». (Questa intervista è stata pubblicata in versione ridotta sul Giornale di Sicilia)