Un colloquio con Letizia Pezzali, autrice rivelazione con il romanzo “Lealtà”, che ragiona sulla compatibilità di temi come l’alta finanza e l’amore ossessivo nel suo libro («L’apparente razionalità dei mercati spesso cela l’imprevedibilità, nasconde l’irrazionalità. Dietro le banche ci sono individui, per questo caos ed emotività sono parole chiave. E mondi che sembrano distanti sono molto vicini»), spiega la difficoltà dello scrivere di sesso, racconta degli autori di riferimento
Valicare i confini – attirare consensi e stipulare contratti per le traduzioni – per un romanzo italiano è operazione tutt’altro che semplice. Accade con regolarità a pochi, consolidati, nomi. Neanche tutti di qualità. Circa un anno fa un romanzo non ancora pubblicato in Italia aveva già fatto breccia presso editori stranieri, con diritti venduti ben presto in Francia, Spagna e Olanda (al momento le traduzioni sono già sette). È stato questo il percorso di Lealtà (280 pagine, 17 euro), secondo titolo di Letizia Pezzali (il primo era L’età lirica del 2012, edito da Baldini e Castoldi, con cui fu finalista al premio Calvino), romanzo probabilmente poco italiano, di grande originalità, con ingredienti come l’alta finanza, l’ossessione e l’eros che lasciano il segno per come emergono sulla pagina. C’è di mezzo anche una storia d’amore, nel libro di Pezzali, un intreccio di ossessioni e desideri, che Giulia provava (lo rievoca) per Michele, il collega più anziano di lei che l’aveva conquistata un pomeriggio all’università. La relazione tra Giulia, studentessa di Economia a Milano, e Michele, quarantenne che lavora in una prestigiosa banca londinese, viene vissuta dalla ragazza in modo ossessivo e l’uomo, infine, scompare. Un decennio dopo Giulia lavora a Londra, nella stessa banca in cui lavorava lui, sullo sfondo c’è anche la Brexit…
Pezzali, come si spiega l’attenzione all’estero ancor prima del riscontro in Italia?
«Forse non è una bella espressione, ma ha assunto presto i contorni del caso. Chissà quali sono le dinamiche editoriali che emergono in situazioni del genere, per me hanno una componente misteriosa, anche se è indubbio che nel libro c’è qualcosa che interessa. Magari perché scrivo di espatriati che cercano di ricrearsi altrove un’appartenenza, di italiani sradicati, di persone che si muovono a più latitudini e magari è un tema sentito, specialmente negli ultimi anni. Il romanzo contiene anche un riferimento alla crisi dell’Europa, crisi che si sta inasprendo ulteriormente, è situato in un contesto storico ben preciso, sullo sfondo c’è il referendum della Brexit. Il romanzo era stato scritto in larga parte prima del voto, ma avendolo ambientato a Londra, dove ho anche anche abitato per dieci anni, ho pensato che dovesse contenere qualche elemento legato a quegli eventi, dal momento che influenza in modo significativo proprio al vita degli espatriati e quindi dei miei protagonisti. Tendo a essere abbastanza permeabile rispetto a quello che succede, inevitabilmente mi faccio influenzare dal tempo in cui vivo».
Racconta un mondo, quello dell’alta finanza, che agli occhi di molti, filtrato da tanto cinema, è stereotipato o, peggio, sconosciuto. Cosa si proponeva?
«Il romanzo nasce anche dall’idea di rappresentare questo mondo dall’interno. L’ho conosciuto e nel libro ho voluto che fosse romanzesco, non per forza in linea con la descrizione che emerge da film anche pregevoli. Penso a Wolf of Wall Street con Leonardo Di Caprio, o a Wall Street con Michael Douglas. Narrano di epoche diverse, forse il più attuale è La grande scommessa, The big short in originale. Il mondo della finanza al cinema ha personaggi vasti e rappresentazioni epiche, io cercavo di esprimere qualcosa di più quotidiano».
Questo mondo sembra essere incompatibile con una storia d’amore, nell’immaginario comune è algido e oscuro, distante dal calore della passione. E invece?
«L’apparente razionalità dei mercati spesso cela l’imprevedibilità, nasconde l’irrazionalità. Caos ed emotività sono parole chiave. Nelle banche, per esempio, ci sono individui, non elementi astratti. Sicuramente i computer svolgono una funzione significativa nel trading, ma le banche non sono solo trading, sono anche strategia, pensiero, politica, operazioni private fra grandi società. I mercati sono fatti di persone che scelgono d’investire, le loro aspirazioni e i loro sogni, far soldi, contengono un tipo di tensione che si scontra con la razionalità. Si pensi a certe crisi finanziarie, alle bolle, ai momenti in cui tante persone si convincono l’un l’altra che sia il momento di comperare, in un certo senso si contagiano. Quella che inizialmente sembrava o era una buona idea diventa una moda, perde senso, ed esce fuori l’irrazionalità. Nei concetto di bolla finanziaria e turbolenza c’è qualcosa che porta al comportamento umano. Naturalmente non sono idee solo mie, sono tesi di economia comportamentale. Il denaro può deformare molte cose, a partire dal modo di relazionarsi alla realtà, alla quantità e alla qualità del lavoro. Nel mio romanzo, ad esempio, la dedizione al lavoro di Giulia è totale. All’interno di una simile compressione si esaspera la sua fragilità, più esattamente la sua emotività. Scatta l’ossessione. E la dinamica dell’ossessione la conosciamo tutti, magari non necessariamente nel modo in cui la esprime Giulia, magari non in prima persona, magari in altre forme, ma è qualcosa di vicino a ognuno di noi».
Lei ha deciso di allontanarsi dall’alta finanza, non vive più a Londra, dove lavorava in una banca d’affari. Con la sua famiglia risiede a Lussemburgo, si dedica alla scrittura e alla sua figlioletta di sei anni. Perché ha rifiutato quel mondo?
«Non c’è chissà quale grande piano, dietro questa decisione, piuttosto è stata una combinazione di fattori, il principale era il desiderio di scrivere, la scrittura ha preso il sopravvento, non era semplice coniugarla con un lavoro che richiedeva altrettanta dedizione e con la famiglia. Era diventato complesso provare a conciliare le due possibili carriere e i riscontri avuti, dal premio Calvino all’approdo a Einaudi, mi hanno dato il coraggio di abbracciare totalmente la scrittura. Per un periodo ho anche lavorato nel settore delle energie rinnovabili, ma poi sono tornata alla decisione di scrivere».
Quali autori ama e considera modelli? Quali le sono stati utili nel corso della stesura di Lealtà?
«È molto difficile fare dei nomi. Ci sono scrittori importanti per me, al di là di quello che poi finisco per scrivere. Penso a Natalia Ginzburg, forse la scrittrice, percepita pienamente come tale, più rilevante nel corso della mia primissima formazione. Mi piace anche Fenoglio, che in qualche modo compare nel libro. Kundera mi ha fatto davvero capire come un romanzo si possa usare in tanti modi, non solo per raccontare una storia. Mi ha sempre incuriosito, lui lavora in questo senso, nell’ambito della sua storia personale di esule e nei suoi libri c’è sempre una certa commistione di generi e una componente filosofica Stiamo parlando di uno scrittore veramente alto, forse unico, che meriterebbe il Nobel. Lealtà è un romanzo molto diverso dai suoi, naturalmente, ma ha qualche riferimento, come le chiose aforistiche dei capitoli».
Altri punti di riferimento?
«Houellebecq e le sue storie disperate e lucide. Ma anche McEwan e Roth sono importantissimi per me, e Annie Ernaux e Murakami, che sono lontani dalla mia scrittura. Tutti hanno esercitato qualche influenza, negli anni in cui scrivevo questo secondo romanzo. Penso anche a Edna O’ Brien e al suo racconto Oggetto d’amore, storia di un rapporto complesso, in qualche modo di un’ossessione, tra un uomo e una donna. L’ho letto nell’estate del 2016, Lealtà era già scritto in larga parte, ma per me è stato importante confrontarmi con una certa dinamica dell’ossessività, che poi percorre tutta l’opera di Edna O’ Brien. Roth, invece, mi ha sempre ispirato l’idea di inserire una storia all’interno di un contesto più ampio, ma senza forzature. Nel mio caso, per esempio, cerco di fare un accenno alla Brexit, in modo più che altro simbolico. Roth fa questo tipo di lavoro con risultati ovviamente pregevoli. Houellebecq mi interessa molto quando parla di una classe di persone immerse nel mondo del lavoro, spesso in ambito informatico, sempre alienate. Lui è un maestro quando sviscera il tema dell’alienazione del capitalismo, del lavoro che assorbe la vita. E poi nei suoi libri è fortissima la dimensione della sessualità, che diventa qualcosa di meccanico che ti lascia svuotato, ha la capacità di individuare in una scena di sesso, che può essere anche non esplicita o andare avanti per dieci pagine, due, tre elementi che danno potenza alla scena».
Perché è molto difficile scrivere di sesso?
«Perché il ridicolo è sempre dietro l’angolo, pure per i grandi scrittori. Anche Houellebecq, talvolta, eccede e fa qualche scivolone, ma nella maggior parte dei casi le sue pagine di sesso sono sempre ben riuscite, molto sopra la media».
Un italiano contemporaneo che legge con piacere?
«Sono fan di Andrea Camilleri, di cui mi interessa il linguaggio, lo strano lavoro che fa sulla lingua. L’ho iniziato a leggere quando vivevo a Londra, l’ho visto comparire nelle librerie, poi è arrivata anche la fiction su Channel Four, in versione originale sottotitolata. La traduzione in inglese dei libri che prova a restituire il suo linguaggio non è proprio immediata, hanno creato una sorta di slang cockney. È chiaro che quando l’ho letto in originale, mi sono resa conto che non aveva nessun senso leggerlo in traduzione. Mi affascina questo tipo di scrittura così locale capace d’essere globale e arrivare lontano. Credo che all’estero ci sia una certa dose di fascinazione esotica nei confronti di un autore come Camilleri. E lo stesso vale per Elena Ferrante, i cui ultimi libri nel mondo anglofono vanno sotto il nome di neapolitan novels. Ferrante ha una capacità ammirevole di farsi leggere in un mondo in cui la gente fa tremendamente fatica a leggere, è bombardata da altri stimoli ed impegnata a fare altro». (Questa intervista è stata pubblicata in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)