Il poeta capitolino fu un fustigatore del suo tempo, univa alla severità di Belli l’intraprendenza e il tagliente cesello di Meo Patacca, senza la sua grossolanità. Ci ricorda che lì dove vediamo talvolta solo un sorrisino ironico, o dove ascoltiamo un verso che ci sa di storiella, il Sacro – che in una città come Roma può indossare qualunque abito e qualunque poesia – si cela e si rivela, nel suo eterno nascondino con gli uomini
Passeggio per le strade di Roma, mi soffermo a lasciarmi sorprendere dall’ennesima chiesa dietro e dentro l’angolo, tanto piccola quanto basilica; interrompo il passo per qualche istante e la fontanella che incontro mi obbliga a bere anche se non ho sete, perché il sapore di quell’acqua è come una necessità di memoria; sento gli effluvi di una fraschetta, che attraversano il centro come il volo incontrollato di gabbiani immigrati; inciampo in un rudere; una piazza obeliscata mi scompiglia, una pizza rossa poi mi piglia, e decido infine di far sciupo degli ultimi risparmi da falsoturista facendomi derubare al Caffè Greco, dove l’essere vittima di tanto furto accende in me un fuoco di scontornata gratitudine.
La città eterna, un’anima immensa
E le suggestioni di quest’anima immensa che certe volte è chiamata “città eterna” si mescolano a mistici silenzi fatti di quadri, di ricordi mai vissuti ma presenti e di immaginate chiacchierate che mi arrivano alle orecchie sull’onda di un accento sempre troppo bello, fatto pe’ canta’.
Ed è allora che guardo i resti di quel caffè passato via troppo in fretta, come questi giorni romani, ma le cui sporche tracce sono quasi protette dentro una porcellana diventata tazzina, come dentro un Amore diventato Vita, e mi rincuoro: la nostalgia oggi non m’ha ucciso; mi ha spinto a vivere ancora, e a rallegrarmene!
Le bancarelle come altari
E quindi, mentre un perfettissimo e nero cameriere mi porge un conto che mi farebbe disertore e fuggitivo, infilo la mano nella tasca della giacca e tiro fuori un libretto sgualcito, da un euro, comprato su una bancarella. Le bancarelle, che certe volte si fanno altari e ti ripresentano misteri dimenticati, capaci di salvarti dalle ferite della bellezza.
Trilussa, comprato ad un euro.
Una volta sarebbero state mille lire.
Ai suoi tempi sarebbe stato un baiocco, cinque centesimi, ‘n sordo.
Certe cose sono sempre gratis, come atti di amore. E per quanto gli occhi fatichino un poco ad adeguarsi al ritmo di quella lingua, alla fine ci riesco: lo leggo e lo raccolgo; finisco col sussurrarlo. Perché il romanesco non può non affacciarsi al labbro dopo averti attraversato. Anche solo per gioco, devi ripeterne qualche parola. Un affettuoso e delicato li mortacci tua, che ti ritrovi in bocca come una sorpresa, convincendoti anche che il suono sia efficace, che i fonemi siano quelli giusti, e che da qualche catacomba dentro te stesso Roma ti abbia infine raggiunto.
Riscoprirsi ignoranti
È bello, davanti alla rivelazione di nuove pagine e nuove parole, riscoprirsi eternamente ignoranti!
Trilussa m’ha fatto questo effetto. Mi ha fatto dire prima un… “come facevo a non conoscerlo!”, e subito dopo un… “grazie a Dio non lo conoscevo ancora!”.
Se non di nome. Come tutto ciò che è importante. Conosciamo di nome, per sentito dire, per effetto d’una colletta di nozioni che non ci lasciano nella tasca dello spirito l’ombra di un solo quattrino. E poi, quando invece si afferra il contenuto di quel nome, ci ritroviamo in mano un intero tesoro, nel simulacro di un librettino da un euro. O da mille lire. O da un baiocco.
Un nuovo cosmo da esplorare, passato per la stessa identica Roma. Un altro solco a tracciarne i confini, come quello di Romolo (che qualcuno dice non sia stato mai tracciato del tutto, e quindi Roma è ancora in espansione come l’universo, e il suo unico confine sei tu che ci cammini dentro!).
Terzo di un trinomio
Trilussa: nome provvidenziale (per simpatia ed opportunità) che si sostituisce al più secolare Carlo Alberto Camillo “Salustri”, un cognome che il suo allegro disordine ha trasformato in un fausto anagramma.
Trilussa il poeta. Terzo di un sonettistico trinomio cominciato con Gioacchino Belli, continuato con Cesare Pascarella e conclusosi con lui. Una “terzina” poetica a tutti gli effetti, un sillogismo in versi, dove il primo è stato la premessa maggiore, e cioè l’anima stessa di Roma con tutte le sue contraddizioni, coi profumi delle porchette e i lezzi delle forche, ed una lingua tratta direttamente dal popolo come ‘na confessione tirata fori dar Sant’Uffizzio. Il secondo è il termine medio, dove il romanesco ancora forte cominciava a respirare con un po’ d’affanno l’anossia dell’Unità d’Italia. E poi Trilussa, degna conclusione logica dei suddetti passaggi, col suo romanesco così tanto vicino all’italiano da farlo conoscere e leggere anche oltre i confini dell’Urbe, ma mai così italiano da potercisi troppo allontanare.
Non fu capito subito Trilussa. O meglio, lo si capiva troppo bene, e questo divenne pietra d’inciampo per i suoi critici, i quali erano ancora troppo abituati ai catenacci di Gioacchino Belli, a quella romanità così ben incastrata nelle frasi secche di una lingua che solo osti e cardinali potevano ben comprendere.
L’ampliamento linguistico
A Trilussa fu rimproverato questo ampliamento linguistico. A lui che, figlio del suo tempo, si trovò a vivere una Roma ritornata impero dove, nonostante il protezionismo nazionale diventasse più urgente di quello cittadino, la lingua doveva pur adeguarsi.
Trilussa, in fin dei conti, amava farsi capire più che lasciarsi bastare un proprio spazio intimo di comprensione; amava raccontare qualcosa che potesse raggiungere facilmente anche l’orecchio e il cuore di chi non doveva o non poteva, ogni giorno, passeggiare sul lungotevere.
Roma arrivava lo stesso. Per nulla annacquata. La scelta dei lemmi, di certe risoluzioni sintattiche, di certe espressioni, facevano capire che lui metteva un freno all’impeto dell’eloquenza capitolina ma che, pure, si impegnava perché quelle cesure linguistiche non smorzassero in niente la culla stessa di quei versi, che continuava ad essere Roma.
E tuttavia egli, pur parlando della sua Città (perché un romano, parlando romanesco, ci porge Roma anche quando racconta altro), volle approfittare di quel suono così drammatico, adatto alle sentenze, per riflettere sulle cose di un mondo che a Roma forse poteva considerarsi sintetizzato, ma che in essa certamente non si esauriva.
Temi filosofici e poetici, cioè universali
I temi di Trilussa non sono cronachistici né geograficamente autocelebrativi, ma tipicamente filosofici e poetici, e quindi universali: parla di amore e di morte, di vita e di relazioni, di nostalgie fatte di sogni e di violente e crude descrizioni della realtà. Ma indugia con un certo compiacimento narrativo anche su certi generi ormai intoccabili, come quello della favola esopica, con tanto di morale!
Bellissime letture! Si trova il sonetto d’amore, in cui riassume in quattordici versi cosa succede nel cuore umano che precipita dentro due begli occhioni; ma si trova anche quello nel quale, con una feroce ironia da barbiere, si prende gioco persino del Dittatore, dipingendogli addosso un ritratto che gli varrebbe una fucilazione; ma tanto sa che le sue poesie gli piacciono e quindi lui scrive tranquillo.
L’originale creatività di un mattatore
Enorme ed originale creatività quella di Trilussa. Una creatività che da giovane gli viene fuori in modo incontrollato, nelle azioni e negli slanci, senza essere guidata ancora dal vincolo dei versi. Un’originalità che rischia di diventare fin dai suoi primi anni una specie di anarchia dello spirito, dove egli non accetta le regole di alcuno, comprese le proprie.
In questa giovinezza a briglia sciolta, mescolata all’assenza di un padre che ha perduto a tre anni, e di una madre che fa di tutto per accaparrarsi aiuti e comparanze strategiche, il suo unico mentore è un certo Filippo Chiappini, che farà di tutto per farlo studiare, per fargli avere un titoletto che gli permetta un minimo di impiego sicuro. Costui, convinto sostenitore della poesia (e della sottintesa politica) di Gioacchino Belli, non sa ancora di preparare la strada ad un futuro Trilussa, che si discosterà non poco dal suo noto predecessore, cioè dalla “premessa maggiore” del verso romanesco. E così, da poeta, Trilussa si troverà ad avere in Chiappini, che era stato suo mentore, un terribile ed acceso avversario, un critico severo che gli rimprovererà sempre di aver abbandonato le rive certe di una certa poetica a vantaggio dei suoi nuovi e confusi gorgoglii linguistici.
Uno dovrebbe pensare… Povero Trilussa! Tradito da chi lo aveva fatto studiare! Macché… di fronte a quella caterva di pubblicazioni, che una dopo l’altra si susseguiranno, e che il popolo di Roma farà sue in tempi acceleratissimi, nessuna critica avrebbe potuto pesare, nel cuore di Chiappini, più di qualunque umana soddisfazione! Quel Trilussa lì, seppure così distante dalla rigida ortodossia belliana, era anche opera sua!
I romani amavano questo mattatore, questo raffinato fustigatore del suo tempo, che alla severità di Belli unisce l’intraprendenza e il tagliente cesello di Meo Patacca, senza però la sua grossolanità.
Un sarcasmo che riesce perfettamente a contenersi negli abiti elegantemente ottocenteschi der sor Salustri, il quale si conservava gentiluomo pagliettato e monocolato ma mai troppo altolocato; capace di osservare il suo mondo sogghignando dietro quei baffi abbondanti come dietro una quinta di teatro, ridendo di tutto senza mai cedere alla volgarità, all’arroganza, o alla saccente prepotenza nascosta nei velluti dei salotti romani. Egli li frequentava rimanendone immune, e quindi signore assoluto. Alla nobildonna dell’aristocrazia romana, che lo accoglieva maliziosa offrendogli il caffè e la promessa di abbracci futuri, egli concedeva un ammiccamento prima, e qualche verso dopo, per raccontare e raccontarsi un poco, giocherellando praticamente di tutto, mettendo via l’antipatica e sterile polemica della satira e prediligendo per lui e per tutti gli altri il più comodo andamento dell’ironia.
Saper vestire i panni delle circostanze
E questa ironia, tutta romana, sapeva vestire di volta in volta i panni delle circostanze; così Trilussa, che con la sua poesia difendeva da un lato i deboli, i poveri, i derelitti e tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, erano stati messi in un qualche ghetto rionale o ideologico, dall’altro non concedeva mai a nessuno la possibilità di sfuggirgli. Nota è la faccenda dell’usuraio ebreo al quale egli chiese un prestito per poter pubblicare il suo libro, e da cui ricevette una lettera di sollecito recante un inflessibile ultimatum sui pagamenti. Quando il libro uscì, egli usò questa lettera come prefazione, e mastro David lo Spizzichino passò alla storia.
Questo è solo una delle storie che arricchiscono la sua più grande storia, anch’essa scolpita tra i marmi di una Roma sempre troppo grande. Tutte le altre le possiamo leggere sotto le righe dei suoi versi, ancora una volta suonati al ritmo delle favole, dove egli lascerà dire agli animali tutto ciò che gli uomini non sempre possono dire.
Quando smise i panni del vivente terreno, lasciò nella sua città il vuoto di troppa ombra, e non solo perché era alto un metro e novantasette centimetri; ma soprattutto perché in ottantun anni di vita aveva avuto tutto il tempo di crearsi il suo spazio, tanto negli ambienti colti quanto certamente in quelli popolari.
Far viaggiare Roma dentro Roma
Quando l’unica cosa capace di avvolgere interamente il suo mondo era l’immaginazione e il quotidiano sprofondarsi nelle realtà delle miserie umane, e quando l’unico possibile raccordo anulare era ancora e solo la forza dei suoi versi, era già riuscito a far viaggiare Roma dentro Roma, facendo sì che tutti i suoi estremi si toccassero. Anzi, la fece viaggiare così bene da permetterle di muoversi oltre quel solco così sacro, e farsi riconoscere e ascoltare anche da chi romano non era.
Per l’Arcadia era Tribindo Plateo! Per il popolo di Roma divenne il padrino di battesimo di Sandro Ciotti! Ma rimase Trilussa per tutti, indimenticabile ed insostituibile: l’ennesimo Pasquino con un verso sempre pronto, appiccicato sulle sue smussature umane.
Ho lasciato il Caffè Greco e ho camminato davvero un bel po’. Ora mi trovo a Trastevere e finalmente, per la prima volta nella mia vita, assaggio la pajata: rigatoni sui quali vince un sugo squisito, fatto di budella e di salsa, di chimo e di cacio. Uno schifo, direbbero alcuni. Qualcosa di assolutamente sacro, aggiungerebbero altri.
Il Sacro mescola e rimescola, accoppia e scoppia, e dentro una città come Roma può indossare qualunque abito e qualunque poesia, giocando pure con la vita e con la morte, facendo morire il suo Trilussa nello stesso giorno di Gioacchino Belli e di Boccaccio, e suggerendoci ancora una volta che lì dove vediamo talvolta solo un sorrisino ironico, o dove ascoltiamo un verso che ci sa di storiella, il Sacro si cela e si rivela, nel suo eterno nascondino con gli uomini.
Dovette capirlo Papa Luciani, che pur essendo veneto comprese così bene la lingua di Roma da farla parlare coi versi di Trilussa, in una circostanza in cui nessuno se lo sarebbe aspettato.
A lui cedo la parola, chiudendo questo articolo, finendo la mia sacra pajata come fosse un pontificato.
Quela Vecchietta cieca, che incontrai
la notte che me persi in mezzo ar bosco,
me disse: – Se la strada nu’ la sai,
te c’accompagno io, che la conosco.
Se c’hai la forza de venimme appresso,
de tanto in tanto te darò ‘na voce,
fino là in fonno, dove c’è un cipresso,
fino là in cima dove c’è la Croce… –
Io risposi: – Sarà… ma trovo strano
che me possa guida’ chi nun ce vede… –
La Cieca, allora, me pijò la mano
e sospirò: – Cammina! – Era la fede.