Nuova edizione di “Preghiera per Cernobyl” della scrittrice bielorussa e premio Nobel: un reportage letterario sulle conseguenze di una tragedia che contribuì alla dissoluzione dell’Urss, una raccolta di voci dall’orrore, tra fatalismo e ragion di Stato, una cronaca – ora lirica, ora giornalistica – dal cuore della tragedia
The best of. Una collana con gli autori più rappresentativi, riproposti in edizione rilegata con sovraccoperta elegante e colorata. Forma a parte, però, è la sostanza che conta. Le edizioni e/o hanno lanciato i primi otto titoli di una collana, “Le cicogne”, che è la summa del laboratorio e della produzione con cui è stato costruito un catalogo quasi quarantennale, capace di spaziare in tante aree geografiche e di lanciare in Italia autori grandissimi. Un esempio valga per tutti, quello di Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la Letteratura 2015, con il suo Preghiera per Cernobyl (304 pagine, 12,90 euro), che le edizioni e/o pubblicarono con la traduzione di Sergio Rapetti nel 2004, tre anni dopo il debutto in lingua originale. E che ora rilanciano come primo titolo di una collana celebrativa sì, ma che prima di tutto definisce un’anima, la scorza di una casa editrice coerente e indipendente, italianissima, ma a forte vocazione internazionale.
Incidenza della catastrofe e sentimenti
Di quello che avvenne il 26 aprile 1986 nella centrale nucleare di una città allora sovietica è stato scritto di tutto. La scrittrice e giornalista bielorussa, però, è andata oltre. Raccontando non conseguenze, cause e colpevoli, ma rigorosamente l’incidenza della catastrofe e i sentimenti connessi, non semplicemente osservando, ma dando voce al dolore e al non capacitarsi di chi fu investito dal disastro, intervistando uomini e donne di età, speranze, mestieri totalmente diversi. Tutti travolti da quella religione di Stato che nell’Urss comunista era più forte dell’ateismo, ovvero la devozione cieca e totale per la scienza e i suoi progressi. Se qualcuno dopo tre decenni avesse dimenticato quel disastro, questo libro ne ricorda umanità e disumanità e racconta, come un perfetto lungo reportage, una terra ancora infestata dalle radiazioni, che andò alla deriva significativamente, simbolicamente qualche anno prima dell’impero rosso.
Monologhi, storie minime
Il dolore semplice degli ultimi è quello che colpisce di più, quello che scava lentamente negli occhi di chi legge: storie minime di soldati, operai, vigili del fuoco, “liquidatori” (chiamati a decontaminare la zona nei primi anni), poveri contadini fatalisti, di gente ignorante, che si affidò al caso, che non ebbe informazioni e si limitò a fidarsi di politici e scienziati locali, di gente che ripeteva precauzioni inutili (lavare bene le mani prima di mettersi a tavola) che gli etrano state raccomandate, o che disse di continuare a occuparsi dei campi, pur di non interrompere la produzione agricola; storie minime di chi spense l’incendio del reattore ignaro dei rischi, che per denaro o riconoscimenti sociali andò incontro alle scorie radioattive. L’ossessione della segretezza che tutto travolse all’epoca ebbe la meglio. Aleksievic strappa il velo dell’ipocrisia, prendendosi carico dell’orrore della sua terra, al confine fra Ucraina e Bielorussia. Preghiera per Cernobyl, con la sua serie di monologhi, è un misto di realismo e romanzesco, che prende forma grazie a un linguaggio che si piega a seconda del momento, virando ora verso una prosa lirica, ora verso un andamento giornalistico.
Le menzogne e la reticenza criminale
L’autrice scompare dietro le testimonianze. Aleksievic non si inquadra come tanti ingombranti (e importanti) autori di oggi. E s’immerge in un paesaggio post-apocalittico reale, non quello di tanta fiction. Percorre la campagna e i boschi nella zona attorno al reattore, e col bisturi della sua scrittura scoperchia, tra sofferenza e dignità, le menzogne e la reticenza criminale del sistema sovietico sul disastro, sui danni immediati e su quelli a lungo termine, permanenti.
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