Intervista a Paolo Giordano, che a dieci anni dalla pubblicazione de “La solitudine dei numeri primi” torna a confrontarsi con l’adolescenza nel suo nuovo romanzo, “Divorare il cielo”: «Ho ritrovato la nudità che avevo agli esordi, mi sono di nuovo esposto emotivamente, ma i miei nuovi personaggi sono più vitali. Scrivo di una Puglia evocata e sognata che si mescola ai luoghi della mia infanzia. Felice di ritrovare Strout a Taobuk. Il mio voto allo Strega? Ho un ruolo super partes»
«Sono fuggito dalla tua mano verso la tua mano» è una frase di uno dei personaggi centrali del più recente libro di Paolo Giordano (nella foto di Daniel Mordzinski). E forse è vero che bisogna fuggire per tornare al punto di partenza, come in qualche modo è successo alla scrittore torinese, che torna a scrivere a tutto tondo di adolescenza. Ha fatto pace con quel periodo della vita che era il fulcro del suo debutto, diventato un longseller negli ultimi dieci anni, La solitudine dei numeri primi. Lui, Giordano, ha vissuto la solitudine dei numeri uno, esaltato, attaccato, con tanti estimatori e altrettanti detrattori. Inevitabile in un’Italietta costretta a fare i conti con un venticinquenne debuttante, vincitore del premio Strega e del Campiello Opera Prima, di formazione scientifica – studi da fisico, ormai scrittore a tempo pieno e insegnante all’università di Trieste e ai corsi della scuola di scrittura Molly Bloom – capace di vendere milioni di copie e di essere tradotto in tutto il mondo. È in libreria con un nuovo romanzo, il quarto, già al vertice delle classifiche di vendita, Divorare il cielo (430 pagine, 22 euro), edito da Einaudi, come il precedente, non come i primi due, pubblicati da Mondadori. E ha imparato, in qualche modo, a fare i conti col mondo, con chi lo ama o lo giudica come scrittore. Giordano uno degli autori più attesi dell’ottava edizione di Taobuk, uno dei principali festival letterari italiani, dove presenterà il suo lavoro più recente dialogando con la scrittrice palermitana Evelina Santangelo.
Giordano, ha lasciato la sua Torino per vivere a Roma e nel suo più recente romanzo ha un peso preponderante la Puglia. Nella sua vita e nella sua narrativa sembra esserci una certa tensione verso il sud. È così?
«È un richiamo reale, quello verso il meridione, ha posti che trovo molto trasformativi. Ho anche casa in Puglia, sono affezionato a quella terra. Con quel minimo di alterità ed esotismo il sud mi fa un certo effetto, mi aiuta anche nella scrittura, che per me ha bisogno di scoperta e di altrove. Un luogo per affascinarmi deve avere un mistero al quale anelo. Mi sono trasferito a Roma per curiosità, per voglia di cambiare. Credo che il mio mestiere induca ai cambiamenti, anche esteriori, e chi lo fa deve avere il coraggio di cambiare vita, anche abbastanza spesso. Principalmente per avere nuove prospettive da cui riprendere a raccontare».
Scrive di un sud lontano dalle cartoline…
«Per carità, niente cartoline. Forse non c’è nulla di peggio del turismo, nella vita e nei libri. La Puglia di “Divorare il cielo” è evocata, sognata, è un luogo trasfigurato, più intimo. Non ne ho scritto quando mi trovavo lì, per me la lontananza è più fertile. Quando ho in mente un posto e ne scrivo, più che vederlo ci arrivo con la nostalgia. Ecco perché questa Puglia è mescolata con la campagna della pianura padana, certi luoghi della mia infanzia, in cui trascorrevo l’estate».
Con Divorare il cielo è finita una fase della sua vita?
«All’avvicinarsi dei trentacinque anni ho sentito di concludere un ciclo. Mi sono autorizzato a tornare al racconto di una parte della vita, come l’adolescenza, e mi sono riconciliato con essa, che per molto tempo ho considerato un tabù. Naturalmente sono tornato a scriverne in modo molto diverso e con l’età che adesso ho sulle spalle. Ai tempi de “La solitudine dei numeri primi” ero ancora immerso in quella giovinezza ibrida. Credo di avere ritrovato la nudità che avevo quando ho scritto il mio primo libro, l’ho riguadagnata con grande fatica. Come il mio esordio anche “Divorare il cielo” è un libro molto esposto emotivamente, anche a livello di racconto, ho lavorato a lungo. Ci sono tanti modi di fare e intendere questo mestiere, per me è portare ai lettori storie che abbiano un portato profondo e richiedono tempo. Ci vuole anche tempo per vivere un po’, non solo per scrivere».
L’impressione è che Divorare il cielo sia un libro “full of life” e, che rispetto al passato, si sia più “divertito” a scriverlo…
«Indubbiamente è un romanzo più vitale rispetto agli altri che ho scritto, i personaggi hanno maggiore vitalità anche se, come tutti noi, a volte la usano in modo lesivo e autolesivo».
È una storia d’amore, di illusioni e di utopie, un romanzo di formazione o cos’altro?
«Ognuno decide cosa è o rappresenta più per lui. Per me è un romanzo sulle utopie, sulla fine che hanno fatto, sul loro stato di salute, su dove possiamo rintracciarle. È un romanzo sulla difficoltà di capire in cosa credere oggi».
La solitudine dei numeri primi ha creato un dibattito e segnato un periodo. Come ha reagito alla grande esposizione mediatica?
«Mi sono un po’ nascosto, sono stato distante e appartato. Anche quello che facevo in pubblico era molto schermato, con poco contatto diretto con il pubblico. Adesso le cose sono cambiate. Da circa un mese sono impegnato nelle presentazioni, vivo moltissimo il confronto diretto con chi mi legge, anche singolarmente. Mi sono riscoperto più socievole, l’etichetta di asociale del resto non mi si addiceva particolarmente. Mi sono perfino iscritto da poco a Instagram, me lo hanno consigliato alcuni blogger in un recente incontro. Prima pensavo fosse pericoloso, e magari lo è e lo scoprirò più avanti, ma al momento mi piace questo elemento vitale, è comunque un pezzo di contemporaneità, anche nella sua vacuità. Sono un po’ imbranato, ma mi diverto a rispondere ai commenti, sono abbastanza contento di esplorare questo mondo, per cui è caduta l’idolatria e si vive già una fase di assorbimento, in maniera anche un po’ leggera. Mi sembra interessante capire il concetto di personalità che c’è lì e come cambia per il fatto di essere lì».
Dieci anni fa si è imposto al premio Strega. Da allora è cambiato tanto, il riconoscimento ha subito una metamorfosi, dando più visibilità agli editori indipendenti. Una svolta necessaria?
«Alcune regole sono mutate, si è allargata la platea dei votanti. È un segnale importante, un cambiamento molto significativo, ma non abbastanza da snaturare il Premio. Credo che nessuno voglia stravolgerlo, perché al di là di qualche polemica, lo Strega ha il merito, anno dopo anno e in linea di massima, di dare spazio a libri importanti, non solo al vincitore, ma anche ai finalisti».
Nella cinquina di quest’anno spiccano le “quote rosa” (Lia Levi, Sandra Petrignani, Helena Janeczek, oltre a Marco Balzano e Carlo D’Amicis). Lei ha una preferenza?
«Certe tendenze a proposito del profilo degli autori sono frutto solo delle contingenze, c’è l’anno delle donne, quello dei romani, tutto dipende semplicemente da ciò che viene pubblicato nel corso della stagione. Da Amico della domenica voterò certamente, però faccio anche parte del comitato direttivo del Premio, ho anche questo ruolo istituzionale e super partes, il voto lo tengo per me…».
A Taormina rivedrà Elizabeth Strout, autrice che ama, a cui ha assegnato il premio Mondello, a Palermo, da giudice monocratico. Un’ammirazione che deriva dal fatto di indagare mondi letterari simili, o da una comunanza di intenti e sensibilità?
«Da lettore, semplicemente, mi piace quello che scrive, amo i suoi libri, mi interessa quello che fa. Sono felice di averla sostenuta in Italia. Credo sia sbagliato che, da scrittori o da lettori, si cerchi il simile rispetto a noi in quello che leggiamo, il dissimile è molto più stimolante, ci apre mondi nuovi».
L’ultimo libro che ha letto? L’ultimo che l’ha entusiasmata?
«A queste domande preferisco non rispondere. Sembrano consigli dati in modo indiscriminato, non mi piace darne». (Questo articolo è stato pubblicato in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)