“Il peso del legno” di Andrea Tarabbia nasce da un connubio tra il genere della confessio e quello del saggio filosofico-letterario. C’è una somiglianza sostanziale tra il Vangelo, e questo libro : entrambi ti leggono mentre li leggi. Entrambi meritano di essere letti, e di poterti leggere
In effetti, me lo sono sempre chiesto anch’io…
Cosa? Mi riferisco alla domanda con cui Andrea Tarabbia apre il suo libro e che ovviamente qui non riferisco; una domanda a partire dalla quale si scatena tutta una riflessione che vorrebbe potersi tramutare in una risposta, ma non può ancora; e lascia troppo spazio a delle “macerazioni” che non sono destinate semplicemente a coloro che credono, o che dicono di credere, ma a qualunque uomo; anche a chi non crede, o dice di non credere. Domande e risposte che travalicano abbondantemente lo spartitraffico dei testi sacri, per diventare quasi una ripresentazione sacramentale di quell’interrogativo che, secolo dopo secolo, e autore dopo autore, nella sua apparente semplicità ha segnato la storia di un’intera civiltà: perché mi hai abbandonato?
Croce come materia e significato
Stiamo parlando de Il peso del legno (205 pagine, 14 euro), ovvero il secondo importante tassello di un progetto che NN editore sta portando avanti nella sua collana CroceVia: una direzione editoriale che ha come scopo, appunto, quello di investigare la semantica del sacro. Il titolo dell’opera è già, a tal proposito, un contenitore abbastanza eloquente… Una metonimia talmente ingombrante da essere subito riconoscibile, nonostante il velo della retorica: un legno così drammaticamente famoso da non lasciare dubbi circa la natura del suo peso. Ma se non si hanno dubbi nel capire di quale legno si tratta, si inizia ad averne – e anche tanti – quando ci si avventura sui sentieri della sua stessa essenza. La croce non è fatta, purtroppo, solo della sua materia; è fatta anche del suo significato. Ed è questo l’oggetto di indagine del libro: un’opera ricavata da un connubio tra il genere della confessio e quello del saggio filosofico-letterario. E se, in questo mescolamento, ci sono delle cerniere stilistiche… non ce ne accorgiamo. Abbiamo di fronte un’unità compatta di parole, idee ed immagini che non vengono relegate all’orizzonte delle descrizioni, ma ascendono al grado di formule che possono regolare l’esistenza, anche solo rendendola inquieta quel po’ che basta perché non diventi inutile viverla.
Tarabbia non dà mai, fin dalla prima pagina, l’impressione di avere qualcosa di cui parlare; ma di voler parlare di qualcosa, di voler condividere coi suoi lettori il “peso” di una questione sulla quale egli spera di poter essere capito da tutti, almeno quando pone certe domande o certe perplessità. Quando per esempio, a partire da certi elementi dati troppo facilmente per scontati, il cristianesimo appare come qualcosa che sembra mettere a disagio l’intelligenza (Simone Weil).
Qualcosa che tutti affligge e interroga
A capirlo non sono solo quelli che, come lui, hanno già letto molto materiale sul tema; ma anche coloro che, senza essersi mai avventurati all’interno di una ricerca esegetica del senso, potrebbero trovarsi questo libro tra le mani e inciampare su contenuti che fanno parte di una quotidianità che non conosce titolo accademico o orizzonti religiosi storicamente determinati: il “peso del legno” è infatti qualcosa da cui ogni uomo si sente afflitto e, allo stesso tempo, interrogato. Tarabbia ha il merito di farci capire che la questione (senz’altro filosofica, legata ad una teodicea tutt’altro che esaurita) è talmente alla portata di tutti da dover essere discussa per forza, a partire da quella “sensazione fortissima” che lui stesso ammette di provare quando, pur non capendo Cristo, e ritenendolo talvolta persino ingiusto, ne percepisce – esattamente come il prefetto di Giudea – la portata straordinaria.
Un saggio non è propriamente una narrazione. Ma attraverso la narrazione puoi parlare di tutto; puoi fare, di ciò che in altri contesti sarebbe potuto essere un saggio, qualcosa di assolutamente diverso sul piano dell’approccio, pur mantenendo il medesimo oggetto. A Tarabbia, nella fattispecie, la narrazione non sfugge affatto; sia per la sua potenza intrinseca di avvicinamento al tema, sia soprattutto perché essa è il contesto naturale all’interno del quale, normalmente, si parla del “legno”. Le cose, e soprattutto le persone, legate al peso di un legno come quello, non meritano solo che se ne parli: vanno raccontate!
Un senso di colpa rimasto insoluto
Un po’ come Agostino, egli si appoggia all’accettazione di se stesso e della propria ombra (Hans Küng) e costruisce il proprio apparato narrativo sull’impalcatura autobiografica di un senso di colpa rimasto insoluto, che fa contemporaneamente da cornice e da nocciolo di tutta la questione, e che si riverbera ogniqualvolta si presenti l’occasione per l’intreccio di altre e chiarificanti equivalenze narrative. Ma non sono “pere”, come quelle di Agostino, quelle che il nostro autore ha rubato, e per cui ancora percepisce un peso nella propria anima. Tarabbia ruba ben altro; ruba preziose occasioni letterarie: spazi sacri ricavati da pagine antiche e moderne che, in mille modi diversi, descrivono l’essenza della domanda centrale dell’opera. Sembra di scorgere nell’autore un’avidità di coscienza che lo spinge, una volta dopo aver trovato nel suo campo la sua perla, a “vendere” tutto il resto e comprare quel campo; in altre parole, sembra che egli desideri spendere tutto ciò che possiede – tanto in esperienza quanto in conoscenza – per far sua la cosa più importante. I titoli e gli scritti di coloro che l’hanno preceduto su questa strada diventano le sue monete… i suoi trenta denari. Ma questi non gli servono per tradire… Tutt’altro! Vi è nell’autore l’esplicita intenzione di svolgere una ricerca che abbia come fine quello di “non lasciarsi tradire” dalla banalità o superficialità con cui troppe volte si parla della croce, di questo legno, e del suo millenario peso.
Un’epifania di tutto rispetto
Nell’opera di questo giovane scriba, che dal tesoro della letteratura tira fuori tesori antichi e nuovi, ecco allora dunque un’epifania di tutto rispetto. Lo scrittore che, prima di essere tale era stato bramoso lettore di autori che si erano interrogati sul senso di questo “peso”, ritorna questa volta a scrivere come una specie di profeta. E non nel macinato e piatto significato di uomo che predice il futuro, niente affatto. Diventa profeta nel senso più biblico possibile: uomo che parla dinanzi a qualcun altro. E questo qualcun altro non è solo il lettore. Non è solo il lettore il destinatario di insostenibili interrogativi. È un Trascendente che sembra aver mescolato la durezza sua ineffabilità a quella di quattro chiodi, e che dunque va interrogato non solo sul perché ha fatto tutto questo, ma soprattutto sul perché abbia preteso che altri partecipassero a questa stessa follia.
Le vertigini letterarie di certi autori
Al lettore, perciò, Tarabbia propone un percorso fatto di tappe umane, un cammino che passa dall’esperienza di uomini che hanno, in modi diversi, portato un peso troppo grande per loro. Alla descrizione di questi uomini, che diventano simboli dell’umanità tutta, si associano le vertigini letterarie di certi autori che, come dicevamo prima, sono stati prima nutrimento, ed ora diventano occasione d’inchiostro, di sintesi. Autori citati, e sono davvero tanti (Simone Weil, Hans Küng, Michail Bulgakov, Jorge Luis Borges, Leonid Andreev, Anatole France, Fëdor Dostoevskij… solo per dirne qualcuno), ed altri presupposti, o semplicemente presenti ma invisibili, come René Girard, che viene fuori da sé, dai suoi stessi sentori, già molto prima che si arrivi al capolinea della bibliografia.
Mille storie che confluiscono in una. Mille modi diversi di descrivere il medesimo evento, che è quello della croce, ma in un’unità di voci che si ritrova – indipendentemente dalle convinzioni – ad avere in comune lo stesso cieco stupore dinanzi ad un mistero troppo grande perché non ci possa sentire necessariamente uniti davanti ad esso. Sentiamo per esempio i passi pesanti di un Baltasar che viene costretto a morire sulla croce proprio perché i suoi beneficati lo hanno riconosciuto santo come Gesù, e quindi, nella coerenza di questo riconoscimento operano un finale tipicamente “sacro”, violentemente ritualistico (Jorge Luis Borges). Percepiamo anche i passi trascinati ed inquietanti di un Lazzaro che, dopo essersi ritrovato risuscitato, non riesce più a capire il significato di se stesso, e diventa una specie di pericolosa Medusa in giro per il mondo, perché i suoi occhi di protorisorto non riescono a scorgere il perché di tutto questo, e pietrificano gli sprovveduti che lo osservano cercando risposte (Leonid Andreev).
L’evangelista di un Golgota profano
Di tutti questi passi, Tarabbia appare come il compilatore; l’autore diviene il compagno di viaggio, l’evangelista di un Golgota profano in cui si consuma l’evento del sacro; lo spettatore impotente di quegli olocausti in cui, insieme all’evento sacro, si consumano anche coloro che, in una maniera o nell’altra, ne sono stati attirati come la falena dalla luce. Ed è proprio nel momento in cui egli si pone come spettatore di questi sacrifici, da un alberello lontano che ricorda quello alla cui ombra il Levi Matteo de Il Maestro e Margherita guardava morire il suo Signore, che viene fuori il suo grido, la sua confessione (che non è l’auto-proposizione di una condanna, ma la manifestazione della sua stessa umanità), la sua blasfema, poetica e bellissima richiesta di senso, che ricorda tanto quella del profeta Geremia, oltre la quale Geremia non poté mai più apparire così fragile, così santo, così meravigliosamente bello e profeta: «Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu [Signore] sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti!» (Ger 15,18).
Così, se da un lato Tarabbia fa serenamente ammissione di uno spirito religioso non religiosamente determinato in una qualche “fede istituzionale”, dall’altro ci sembra avere tutte le carte in regola per elevare il suo grido all’Altissimo, il quale, forse, si aspetterebbe questo grido prima dell’esercizio di qualsivoglia culto regolare. Esistono un culto ancestrale ed un tempio primordiale: sono la sofferenza ed il cuore dell’uomo!
Senza pa(r)tire da qui non si arriva da nessuna parte; illudendosi di eludere l’antica domanda sul perché legato alla croce e al suo peso, non si può percorrere un’idea religiosa onesta; meno che mai se questa idea è quella cristiana. Il cristiano professo deve poter dare la sua risposta a quella domanda, e deve essere una risposta sensata, non mutuata dalla mediocrità di prestiti ideologici e frasi fatte. Il percorso religioso autentico non si interroga tanto sulla meta (che è sempre la realizzazione dell’uomo), ma sulla strada che, verso questa meta, si è chiamati a percorrere. Così, a Tarabbia, non interessa partire dalla possibile verità di una risurrezione che potrebbe banalmente essere considerata solo la grande luce di fine spettacolo, ma da una croce che, invece, è presente in ogni atto della vita, e quindi deve essere presa in considerazione, con tutte le contraddizioni di cui il suo crocifisso, alveo ed effige di ogni possibile sofferenza umana (Giovanni Testori) è segno ed archetipo.
Un coraggioso tentativo di mediazione
E in tutto questo, l’autore traccia una linea base di se stesso. Tra le numerosissime citazioni e i molti richiami ad altrettanti paralleli letterari, egli scrive un po’ di sé. Quel tanto che basta per farci capire che la sua non è una dissertazione dotta sulla sofferenza e sul suo atavico perché, ma il riflesso di un dramma consumatosi anche dentro di lui. Non dimentichiamolo: in tutto questo libro il suo primo ruolo non è quello di autore, ma di compagno di viaggio. E così anch’io, a pagina 55, ho dovuto fermarmi. E faticare a riprendere. E avrei voluto averlo accanto per dirgli che ognuno di noi figli quarantenni ha avuto una verifica d’inglese alla quale non ha voluto o potuto rinunciare. E che sono d’accordo con lui quando dice che il dolore, nella sua forma più pura, si ingravida di solitudine e di lontananza dal padre.
Tarabbia è già autore di quattro romanzi, una raccolta di racconti, una traduzione e cinque saggi. E nonostante questo, con una semplicità che per un autore come lui è già qualcosa di molto simile alla chenosi di cui parla, egli riesce a liberare sentimenti che non riguardano più la relazione tra il lettore e il suo libro, ma tra il lettore e lui stesso. E questo ci rende il libro più credibile; ce lo mostra come ciò che è: un coraggioso tentativo di mediazione tra il rischio dell’astrattezza e la crudele presenza della realtà.
E questo percorso è flagellato da domande che egli pone a se stesso, a noi che leggiamo, e a Colui che questa croce l’ha portata come un fondamento: «È colpevole, è piccolo chi fugge un dolore possibile?!».
Mentre noi tentiamo una risposta, non tanto per rispondere a lui ma perché ci accorgiamo che la domanda è troppo puntuale alla nostra quotidianità per lasciarla da parte, ecco che lui scrive, scrive, scrive ancora, andando a capo pochissime volte, come quando ci si sfoga. E dunque costringendoci a non staccare gli occhi dal foglio. I suoi paragrafi sono i punti interrogativi; i suoi periodi sono i punti di sospensione davanti a certe pittoriche descrizioni, davanti a certe immagini riflesse.
Simone di Cirene, Giuda Iscariota, Ponzio Pilato… Sono solo alcuni attori principali di questa avvincente ed originale disputa sul sacro. Poi, in questa intersezione di insiemi, ce ne sono altri che non ti immagineresti, ma che stanno là dentro e saltano fuori quando meno te l’aspetti, come l’autore stesso, e come te. Vi è dunque una somiglianza sostanziale (e secondo me anche una tenera continuità) tra il Vangelo, e questo libro che ci si butta dentro nell’esigenza tutta apologetica di tessere una difesa alla legittimità dei nostri perché: entrambi ti leggono mentre li leggi. Entrambi meritano di essere letti, e di poterti leggere.
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