Orti Manara è un giovane scrittore da leggere, specie se si è pronti ad inabissarsi nei sogni assopiti, nella solitudine disperata, nelle manie deliranti dei suoi personaggi. “Il vizio di smettere”, la sua raccolta di racconti, ha protagonisti, tutti posseduti da qualche demone e accomunati dall’essere visionari, che assomigliano a noi
Racconti Edizioni è una giovanissima casa editrice romana, nata nel 2016, che pubblica short stories: la prima casa editrice in Italia che si dedica soltanto a racconti. Nel suo catalogo annovera non solo un titolo e un autore finalisti al Premio Strega 2018 (Dal tuo terrazzo si vede casa mia di Elvis Malaj), ma anche scrittori di talento come Michele Orti Manara che con la sua raccolta Il vizio di smettere (170 pagine, 14 euro) dimostra di essere l’asso nella manica degli editori Stefano Friani ed Emanuele Giammarco, che hanno avuto il coraggio di puntare sul genere letterario più temuto, perché accusato di non vendere.
Dal realismo al surrealismo
«Qualche tempo fa l’autore di questo libro si è chiesto a chi assomigliassero i propri personaggi» è la premessa nella copertina interna del libro. E la risposta è semplice, ma complicata allo stesso tempo: i personaggi di Orti Manara assomigliano a noi. Al di là delle differenze di genere, di età, di orientamento sessuale, i racconti compongono un’unica trama, intrecciando spaccati di vita di persone comuni che potremmo essere noi e basta osservare la copertina, con i suoi disegni color pastello e acquerellati, per rendersene conto. Del resto, questo genere letterario affonda le sue radici nel bisogno di comunicare proprio dell’uomo e, dalla millenaria tradizione orale, arriva fino all’epoca contemporanea con tale intento. Lo stile forte e armonico di Il vizio di smettere, i temi trattati, la struttura, il linguaggio si muovono su piani e argomentazioni diversi, apparentemente distaccati gli uni dagli altri, ma percorrono un’unica strada che conduce il lettore a condividere con i protagonisti caratteri ed esperienze della natura umana. Esso comprende generi molto diversi tra di loro e Orti Manara ha la straordinaria capacità di fonderli e formare un tipo di racconto del tutto nuovo: il realistico incontra il fantastico, il fantascientifico si avviluppa con lo psicologico e l’umoristico, l’onirico e il surreale seguono il racconto d’azione. Si alternano storie in cui il realismo rappresenta la realtà quotidiana e fotografa la vita quotidiana con i suoi risvolti sociali problematici, come in Rantolo che apre la raccolta e scatta un’istantanea alla fragilità della maternità, alla paura di sentirsi responsabili della vita di un piccolo essere e al timore di perdere il controllo; o come Sulla colonna, la storia di un adolescente in cerca di se stesso tra una gara spericolata di bici, una cotta per la ragazza che ha il vizio di smettere di fumare, un giocatore di biliardo che lo utilizza come portafortuna e quella colonna, apparsa in un sogno, che rappresenta la sua solitudine e la sua felicità allo stesso tempo («Sono uno di quei, tipo eremiti, hai presente? Quelli che vivevano sopra una colonna senza scendere mai. E quindi nel sogno sono lì, sopra la mia colonna, larga abbastanza da starci disteso. In tutti e tre i sogni però sono inspiegabilmente molto felice»). Poi ci sono le storie oniriche e surreali come quella di un moderno Gesù Cristo in Una vita in venti minuti, legato al cielo da spessi fili organici senza fine; quella del gatto, “fatto uomo”, che spiattella le proprie rimostranze al suo padrone in un dialogo ironico, cinico e lucido. Non è facile classificare la raccolta.
Diffidenza verso il futuro e ossessioni
Il racconto è forse il più conservatore di tutti i generi, ma quelli di Orti Manara assumono una nuova dimensione perché legati da un unico filo conduttore, da una sorta di incantesimo che cambia la posizione del narratore e del lettore e squarcia il velo di Maya, quel velo che Schopenhauer utilizzava per indicare l’illusorietà della realtà in cui viviamo e che separa noi esseri umani dalla sua autentica percezione. E la realtà è che assomigliamo agli altri, alle fragilità, alle paure e ai timori che accomunano gli uomini nei quali ci immedesimiamo («Sono […] stanco di quel che mi succede, di quel che non mi succede, stanco dell’antico teatro romano in mezzo alla piazza che attraverso tornando a casa, acquattato come un animale che ti fa la posta da centinaia d’anni e che ti osserva con tutti quegli archi, stanco di questa città, e di me, e di tutto», da “Sulla colonna”). Il collante che unisce i racconti di Il vizio di smettere è la comune diffidenza nei confronti del futuro, l’idea che ci sia un burattinaio che muova i nostri fili: e ciò che accade all’assassino di La missione che, nel momento fatidico di premere il grilletto, si blocca e si chiede «che sto facendo?» in un flusso di coscienza che, alla fine, non gli impedisce di portare a termine la sua missione («Non posso decidere di andarmene, sono come un criceto che corre dentro una ruota. Non esiste una via d’uscita, tutto ritorna sempre uguale, non esiste un prima e un dopo, perché è così che deve andare, perché è così che va questo racconto»). Ma c’è un altro filo conduttore che lega e intreccia le storie: l’ossessione dei suoi personaggi. L’autore è perfettamente consapevole del fatto che la vera letteratura vive di ossessioni: i protagonisti dei suoi racconti sono tutti posseduti da qualche demone, accomunati dall’essere visionari, come la vecchietta dell’ultimo racconto, Vera, in preda ad allucinazioni e nevrosi. Ed ecco un autore esordiente che vive, racconta e porta alla luce tale ossessione, alla stregua di grandi scrittori del Novecento: «Céline, Gadda, Gombrowicz, Kafka, Borges, Conrad, Canetti, Manganelli, Perutz, Melville, Landolfi, Maupassant: molti dei nostri scrittori sono degli ossessi», per citare Michele Mari.
Un vero scrittore di racconti
Orti Marana ha il cipiglio del vero scrittore di racconti: la forma breve si plasma perfettamente sulla sua prosa asciutta e secca, sull’uso consapevole e controllato della lingua, delle parole, dei periodi e delle pause, senza lirismi, ma con un’armonia di tempi e spazi che creano poesia. La consapevolezza tecnica e stilistica raggiunge l’apice in Agnese, un monologo disperato, senza punti, a parte i tre di sospensione all’inizio e alla fine del racconto, di una donna di mezz’età che affoga nell’alcool i rimpianti di una vita intera: un testo intenso, toccante e crudele che affonda una lama in pieno petto. Non v’è dubbio che Orti Manara sia un giovane autore che va letto, ma solo si è pronti ad inabissarsi nei sogni assopiti, nella solitudine disperata, nelle manie deliranti dei suoi personaggi.
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