Il nigeriano Soyinka, coscienza dell’Africa e premio Nobel per la Letteratura nel 1986, continua a lottare contro quello che al mondo non va e non smette di scrivere. “Perché è valso la pena vivere? Mi basta sapere di essere vivo. Non so se la mia generazione ha vinto o ha perso, i miei ideali non sono cambiati rispetto a quando ero giovane”
Wole Soyinka, nello splendore dei suoi quasi 84 anni, sembra il protagonista del suo romanzo Stagione di Anomia (Calabuig/Jaca Book), Ofeyi, a caccia di giustizia sociale e di amore. Battagliero come nei precedenti decenni, tutt’altro che in disarmo, il Nobel per la Letteratura del 1986, gigante e coscienza dell’Africa, “fratello minore” di Nelson Mandela, non segue l’esempio di noti colleghi che hanno deciso di ritirarsi, quantomeno dalla scrittura pubblica. Sente di avere ancora cose da dire, pur considerando la letteratura non totalizzante nella propria vita, ma solo una componente. A Palermo, di cui è cittadino onorario, per presentare il suo progetto ReSignifications: The Black Mediterranean – quattro giorni di dibattiti e una mostra, che è parte integrante del cartellone di Palermo capitale italiana della cultura, Soyinka si mostra cordiale e disponibile.
Soyinka, il suo memoir Sul far del giorno, edito in Italia dalla Nave di Teseo, gronda vita, la sua, colma di gioie e sofferenze, a cominciare dalla prigione, dalla persecuzione e dall’esilio. Viene da chiederle, perché è valso la pena vivere?
«Non sono cose che mi chiedo, cioè non è necessariamente valso la pena. Mi basta il fatto che sono vivo, e sapere che ho vissuto. Non vado oltre con i pensieri».
Crede di aver scritto tutto quello che aveva da scrivere?
«No, continuo a farlo, sto scrivendo, lavoro con una certa continuità. Ma di più non dico, non sono abituato a parlare delle mie opere quando ancora sono in corso».
Come ritiene, nelle sue opere, di avere reso il tempo che ha vissuto?
«Non coscientemente, non a tavolino. Un po’ come Proust, forse, nel senso che lo scrittore francese più che parlare del suo tempo lo faceva attraverso la caratterizzazione e la sensibilità dei suoi personaggi».
I protagonisti del suo primo romanzo, Gli interpreti (Calabuig/Jaca Book) sono cinque giovani che studiano e si formano all’estero, e poi tornano in Nigeria decisi a cambiare le cose. È un po’ la fotografia della sua generazione. A più di mezzo secolo di distanza che fine hanno fatto quei ragazzi?
«Non spetta a me dire che fine ha fatto quella generazione, non so proprio dire se ha vinto, se ha perso. Di sicuro posso dire che io continuo ad agire in un certo modo. Cioè se mi trovo davanti qualcosa d’ingiusto, sento la responsabilità e il dovere di combatterlo, è ancora tutto come allora nel mio atteggiamento. Noi artisti dobbiamo essere testardamente creativi e non arrenderci dinanzi a quello che nel mondo non funziona».
Le traversie personali e l’impegno a tutto tondo da attivista politico hanno in qualche modo limitato o rallentato il suo mestiere di scrivere? Coltiva qualche rimpianto?
«Nessun rimpianto, non ho scritto poco, specie teatro e poesia. Non ho una visione evangelica della mia scrittura e, per me, la vita non è solo letteratura. Ci sono altri impegni, ci sono altre cose da fare. Una vita vissuta al cento per cento, per me, comprende i libri, ma non solo».