Molti classici, soprattutto italiani, non necessariamente con i loro titoli più noti. Ecco i sette libri per la primavera (che volge al termine) – o “per rassodare i glutei”, come ha scritto di suo pugno – dello scrittore palermitano Isidoro Meli, in libreria con “Attia e la guerra dei gobbi”, per l’editore Frassinelli
“La terra del Blues” di Alan Lomax (Il Saggiatore)
Dispacci dal delta del Mississipi nella prima metà del ‘900. Alan Lomax racconta trent’anni di traversate e traversie lungo la Louisiana, il Mississipi, l’Arkansas e il Tennesee alla ricerca delle origini del blues, delle sue radici africane. Lo accompagnano, stipati in un’eroica vettura, pochi fondamentali collaboratori, vecchi microfoni e una macchina mobile per incidere gli acetati che occupa tutto lo spazio a disposizione. Ovunque vada incontra fango, zanzare, piantagioni, umidità soffocante, poliziotti ostili, reverendi indemoniati, ghetti di catapecchie, scalcinati spacci alimentari, schiavi, soprattutto schiavi. Quelli che raccolgono il cotone e lo caricano nei battelli, quelli che trasportano sulle spalle le travi dei binari ferroviari, rollando le anche per reggere sulle spalle pesi altrimenti insostenibili, seguendo il canto del capo squadra e i controcanti dei lavoranti, quelli che mettono in sicurezza gli argini dei fiumi. Lomax li avvicina, li interroga e talvolta li registra, vincendo le loro diffidenze con discrezione ed empatia texana. Nessuno di loro riesce ad aprirsi pienamente, per timore delle rappresaglie degli sbirri. Però qualcosa raccontano. Storie ironiche, desolate, sporche, struggenti. Storie in cui si impara a non essere infelici neanche davanti all’orlo dell’abisso. E poi cantano. Son House, Big Bill Broonzy, Muddy Waters. Registrazioni musicali leggendarie, che cambieranno la storia della cultura popolare. Oltre ad essere il più importante testo di antropologia musicale del Novecento, fondamentale per comprendere gran parte delle dinamiche evolutive della musica moderna (molto più importante di qualsiasi Simon Reynolds), la Terra del Blues è un meraviglioso esemplare di Grande Romanzo Americano, che prende molto da Steinbeck e altrettanto da Twain. Ed è all’altezza di entrambi.
“Morte nel pomeriggio” di Ernest Hemingway (Mondadori)
Non c’è alcun bisogno di retorica quando si parla di corrida, l’ultima grande rappresentazione del duello arcaico. Ci sono già troppi intrecci di significanti e significati per caricare con altri simboli. Hemingway adopera la semplicità del cronista e la precisione del chirurgo, descrivendo ogni singolo dettaglio del rituale senza concedersi ai magici tappeti evocativi di cui è inarrivabile maestro, spogliando il linguaggio di aggettivi e colori. Fino all’ultimo, monumentale capitolo, uno dei momenti migliori di Hemingway e della prosa tutta: una manciata di pagine che contengono la Spagna in ogni suo angolo, ogni strato di cielo, ogni respiro d’aria, il Cava versato sui pavimenti e quello gettato in gola, a scacciare l’arsura di un caldo granitico e polveroso.
“La pesca del tonno in Sicilia” di Vincenzo Consolo (Enzo Sellerio)
Arrivato a Trapani, mi sovvenne un’idea: un racconto della pesca del Tonno in Sicilia Occidentale sulla falsariga di Morte nel Pomeriggio di Hemingway. Ce l’avevo già pronto in testa, lo stile, la successione dei capitoli, il climax emotivo, gli spunti da approfondire. Purtroppo era già stato scritto, anzi per fortuna. Perché meglio di così non si può fare. Consolo Vincenzo da Sant’Agata di Militello raggiunge a mio avviso le vette più alte della sua arte in questo trattato edito da Enzo Sellerio, accompagnato da illustrazioni, planimetrie, mappe, e vecchie foto, dove sviscera ogni aspetto della pesca del tonno, un rituale altrettanto arcaico e carico di significati della corrida, e perfino più cruento (lo stringersi delle reti per ammassare i tonni nella camera della morte, prima della mattanza). Non mancano le trascrizioni dei canti di mattanza, che ci riportano ancora a Lomax (che di passaggio in Sicilia, li registrò). E una secca tagliatina di faccia al buon Hemingway, giusto nel finale, quando Consolo ricorda che qui non si parla di corrida, ma di un rituale più nobile: che non riguarda lo sfoggio di virilità fine a se stesso, ma la lotta per la sopravvivenza.
“Fiaba bianca” di Antonio Moresco (Rizzoli Lizard)
Comprato tre giorni fa, iniziato ieri sera, lo finisco stasera. Storie di capperi del naso preziosi come perle, ballerini dalle ossa scricchiolanti, treni che uniscono il regno dei vivi con quello dei morti, un nonno e una nipote che giocano con l’immaginazione, osservando il panorama da una giostra panoramica. Leggere Moresco è un’esperienza meravigliosa. E io non vedo l’ora di leggerlo a mia figlia.
“In campagna è un’altra cosa” di Achille Campanile (Bur)
Ho scoperto Campanile tardi, a trent’anni suonati, e da allora è una compagnia cui non riesco a rinunciare. Centellino le sue pagine perché vorrei che non finissero mai, e ho terrore del giorno in cui accadrà. In questo libro dal vago sentore estivo, una raccolta di storielle incentrate sulla vita di campagna, ci sono tutti gli ingredienti della sublime arte di Campanile: giochi linguistici, ardite connessioni fonetiche, battute stranianti, quel continuo rimestare luoghi comuni fino a incepparli che è la base del suo umorismo, irresistibile e abissale. Si ride tanto, di quello che si legge. Ma soprattutto si ride di noi stessi.
“Un amore” di Dino Buzzati (Mondadori)
Il primo romanzo che ho letto di Buzzati, ovvero il mio scrittore italiano preferito. Me lo regalò un amico perché aveva trovato affinità con certi miei racconti adolescenziali, che dio lo benedica. La storia di un’illusione amorosa proibita, consumata in una metropoli uggiosa, brulicante e smorta allo stesso tempo, dove le persone prendono coscienza della propria solitudine, perdono l’anima, perdono le parole. Un Bret Easton Ellis ridotto all’osso, senza droga e sangue, pubblicato nel 1963. Ma pare scritto questa mattina.
“A che punto è la notte” di Fruttero & Lucentini (Mondadori)
“La vecchia Volkswagen color crema del venditore di matite era parcheggiata a metà di via dei Rododendri.” Lo avverti subito, che hai tra le mani un capolavoro. Lo senti nelle dita. Ci sono il mistero, l’affresco dei tempi, gli svolazzi soprannaturali, il gusto mediterraneo per le sfumature e lo spirito filosofico mitteleuropeo, con punte di fatalismo degne di Durrenmatt. Ci sono una miriade di personaggi memorabili (il mio preferito è la Pietrobono, che pare uscita da un Ellroy in salsa futurista), che eseguono in modo impeccabile la loro parte nella sinfonia, da scafati orchestranti. Ma c’è qualcos’altro, che pervade ogni singola pagina e sovrasta i numerosi calibratissimi ingredienti della miscela: è la divertita sicurezza tipica degli autori in stato di grazia, capaci di affrontare gli ambagi, le strambate e le inversioni di marcia di un romanzo ambiziosissimo come fosse una passeggiata su un risciò con un bicchiere in mano, e l’ombrellino in bella vista.