Intervista a Yewande Omotoso, autrice de “La signora della porta accanto”, sulla genesi del suo romanzo e non solo. “La bellezza della scrittura – racconta – è riuscire a immergersi in situazioni che non ti appartengono. Mi interessa capire, in un mondo individualista come il nostro, come le persone entrano in contatto”
Nata nelle Isole Barbados, cresciuta in Nigeria e trasferitasi con la famiglia in Sudafrica, la storia di Yewande Omotoso sembra fare il giro del mondo. Dopo il primo romanzo, Bom Boy, vincitore del South African Literary Award, torna con La signora della porta accanto, uscito per i tipi di 66thand2nd. La storia di due donne, molto diverse fra loro, barricate in due solitudini che diventano punti di forza, ma nel mettersi in gioco, proprio quando la vita sembra ormai volgere al termine, e con il perdono, scopriranno come condividere alle volte possa essere un sinonimo di vivere.
Omotoso, il tuo romanzo racconta la storia di due donne, vicine di casa, spesso in conflitto, che si tollerano a malapena. Cosa ti ha spinto a raccontare questa storia attraverso il punto di vista di due donne?
«Credo che prima di tutto bisogna riflettere sulla parola scegliere, nel mio approccio alla scrittura non posso dire di scegliere di trattare un certo argomento da un certo punto di vista, ma per un certo periodo di tempo mi sono trovata letteralmente ossessionata da questa idea di racconto. La storia è nata dopo aver vissuto un lungo periodo con mia nonna, nel momento in cui mio nonno stava morendo. Ho passato molto tempo con lei, con una donna anziana a cui stava morendo il marito e questa vicinanza mi ha dato molti spunti di riflessione. A questo punto è subentrata la scelta, quando capisci di avere un personaggio in mente e scegli di andare avanti nel racconto, è questo il momento in cui ho deciso di sviluppare la storia».
Ne La signora della porta accanto hai rappresentato due esempi di famiglia, quella di Hortensia e quella di Marion, ma qual è la tua esperienza di famiglia?
«È una domanda interessante perché al momento non sono sposata e non ho figli, e spesso mi chiedono come possa scrivere le mie storie senza essere un bambino o un’ottantenne (i protagonisti dei romanzi pubblicati, ndr)? Nelle mie storie amo mescolare ciò che per me è famigliare a ciò che non lo è, che non conosco. Nella mia scrittura ci sono l’architettura, il design, la Nigeria, che sono elementi che mi appartengono, ma li mescolo a elementi che non mi appartengono ma che trovo interessante approfondire. Per me iniziare un nuovo romanzo è come un esperimento, un workshop, mi immergo in alcune tematiche, sperimento con le esperienze umane e scrivendo ciò che non conosco diventa famigliare. Perciò posso dire di aver avuto un’esperienza da bambino e da persona anziana. Penso che la cosa bella sia riuscire a immergersi in situazioni che non ti appartengono, ma che in fondo puoi conoscere. Non sono sposata, ma so cosa vuol dire avere il cuore spezzato, non ho figli, ma conosco, in altri modi, quell’amore incondizionato che hanno i genitori per i figli».
Ancora una volta vorrei sottolineare come nel tuo romanzo un tema importante siano le relazioni fra i protagonisti. In un mondo così individualista come quello in cui stiamo vivendo, quando credi siano importanti i rapporti umani?
«La domanda che mi facevo mentre stavo scrivendo questo romanzo era come trovare nuove energie, nuove forze per cambiare la propria vita? Riconciliarsi con gli altri, perdonare, è qualcosa che si può fare fino alla fine oppure c’è un momento in cui è troppo tardi per cambiare? Chiaramente si tratta di un nodo che ha delle connessioni con la storia del Sudafrica: non è troppo tardi per trovare un’unione? La prospettiva dell’individuo era un tema centrale che mi interessava sviluppare. Nei miei romanzi, nella mia scrittura capire come le persone possano entrare in connessione è una questione che mi interessa molto, soprattutto in questo mondo individualista: come possono le persone entrare in contatto tra loro al di sopra di cose insormontabili come la guerra e le violenze?».
Qual è il senso che attribuisci alla parola “fiducia”?
«Può sembrare banale, ma credo che la fiducia siano i mattoni attraverso cui si può costruire una relazione e questo vale anche nello sviluppo della mia storia. La domanda fondamentale che mi sono posta, pensando alle mie protagoniste, era: come avrei potuto mettere i due personaggi, sotto una pressione tale, che avrebbero finito con l’aprirsi e rivelare la propria interiorità e che questa fosse la base su cui costruire un percorso di fiducia?»
I personaggi maschili, ne La signora della porta accanto, sono un universo a parte. Che tipo di uomini hai voluto inserire nella tua storia?
«La mia è una storia soggettiva, tuttavia non ho voluto fare nessun tipo di affermazione generale sugli uomini. Detto questo, la storia che ho scritto racconta di due donne profondamente insoddisfatte, non riconciliate con la vita. E questo deriva anche dal mito del matrimonio che entrambe hanno avuto per tutta la vita e che, di fatto, le ha deluse. Non avevo un’immagine precostituita dei miei personaggi maschili, è il modo in cui si sono sviluppati, in cui sono arrivati a me».
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