Tra gli ospiti più amati del recente Salone del Libro, vincitrice del premio Mondello, il Nobel Herta Müller. Nel dialogo con Andrea Bajani Müller fa i conti con i fantasmi della propria vita, a cominciare dalla dittatura: «Si tace per paura, di essere ascoltati o di avere dei nemici, ma le parole sono anche un segno di coraggio. La paura te lo fa venire, e il coraggio fa venire la paura».
La trentunesima edizione del Salone del libro di Torino appena conclusa ha ospitato, nel fittissimo calendario di incontri e presentazioni con alcune delle più brillanti menti a livello mondiale, anche la consegna del premio letterario internazionale Mondello per l’autore straniero a Herta Müller. A premiare l’autrice tedesca, nata in Romania e già premio Nobel per la letteratura nel 2009, Andrea Bajani, giudice monocratico dell’edizione 2018, chiamato a identificare un autore straniero riferimento sia per il contribuito letterario che per la carriera di scrittore. Herta Müller è risultata così il profilo perfetto per la quarantaquattresima edizione del Premio promosso dalla Fondazione Sicilia con il Salone Internazionale del Libro di Torino e la Fondazione Andrea Biondo, realizzato quest’anno anche grazie alle collaborazioni con il Goethe-Institut Turin e la Frankfurter Buchmesse. «È la prima volta che un autore già premio Nobel accetta il Premio Mondello – ha spiegato Giovanni Puglisi, Presidente della Fondazione Premio Mondello – ne siamo orgogliosi». Tra le sale del Lingotto negli ultimi anni sono passate alcune delle personalità più importanti della letteratura mondiale, basti ricordare la consegna del Premio Mondello a Cees Nooteboom da parte di Ernesto Ferrero nel 2017, e andando a ritroso nel tempo quella del 2016 a Marilynne Robinson da parte di Michela Murgia, a Emmanuel Carrère del 2015 da parte di Antonio Scurati, fino a Elizabeth Strout, vincitrice del Mondello nel 2012 e incoronata da Paolo Giordano.
Voler bene a una lingua
Lingua scelta dalla Müller e in cui lo stesso Bajani si è addentrato, raccontando un periodo berlinese durante l’evento aperto al pubblico di domenica 13 maggio, il tedesco è risultato uno dei perni della riflessione e della poetica dell’autrice. «Scrivere vuol dire prima di tutto voler bene a una lingua, affidarle tutto, fidarsi a tal punto dell’alfabeto da consegnargli ciò che di più caro si ha al mondo – ha infatti scritto Bajani nella sua motivazione al Premio – Quella di Herta Müller è senza dubbio tra le esperienze stilistiche più imprescindibili del Novecento. Divisa tra la lingua romena e la lingua tedesca, tra la tenerezza e la fiducia dell’infanzia e la spietata durezza, al contrario, della dittatura, la letteratura di Herta Müller ha raccontato come pochi altri hanno fatto le contraddizioni del ventesimo secolo. Come tutti i grandi scrittori, però, travalica gli steccati del tempo: le anime indurite che Müller ha raccontato sono le stesse che ogni giorno, nel Duemila inoltrato, ci pongono domande a cui non sappiamo rispondere. La sua lingua scolpita continua a raccontarle, con impietosa, struggente poesia».
Complesse e non lineari le origini culturali dell’autrice, nata in un villaggio romeno di minoranza tedesca: «esistono tante minoranze: ungherese, serba, rom, ci sono gli armeni e i tartari – ha raccontato la Müller – il mio villaggio era piccolo e dipendeva dai contatti con la città, era isolato, i miei genitori erano contadini, intorno a noi si estendeva solo una grande pianura». Adolescente, Herta Müller si sposta in città per frequentare il liceo senza in realtà saper parlare il romeno, lingua che si fa strada tra la quotidianità e il mondo scolastico.
Con gli occhi delle parole
Fino alla mescolanza con la lingua madre tedesca, a creare un universo linguistico particolare, popolato di suoni e immagini dall’una e dall’altra codifica del mondo, quella tedesca e quella romena: «Mi sono accorta che le lingue si incontravano – ha proseguito – e nei modi di dire, nelle metafore, ho notato che il romeno mi era diventato più vicino del tedesco».
Il vento che si ferma, le lacrime che diventano maggiolini: parole italiane per descrivere l’attingere dell’autrice a un doppio bagaglio linguistico: «Ogni oggetto aveva aspetti differenti – ha spiegato la scrittrice – gli occhi della lingua erano così diversi che ho avuto l’impressione che quelli della lingua romena mi fossero più intimamente vicini rispetto alla mia lingua madre, mi sono accorta della sua poesia, della sua sensualità. È una lingua non ordinaria, che sa essere anche vivida e frivola: mi piaceva assaggiarla, l’ho amata per questo. Durante la dittatura è stata rovinata perché ha perso le sue analogie con la lingua di noi semplici, quella di tutti i giorni. A volte uso una parola in tedesco ma l’immagine che ho è quella del romeno: sto sempre su due livelli, la cosa mi aiuta molto quando scrivo. A chi appartengo? Forse la lingua madre la si impara senza accorgersene, l’altra è più consapevole, ma non sono mai stata sicura che una lingua mi appartenga, nemmeno oggi».
Tra il silenzio e la natura: dentro la dittatura
Una lingua dominante, dove tuttavia, come ha notato Bajani, il silenzio ha un ruolo importante e la natura domina, quasi incombesse come una minaccia. «Quando vivi a contatto con una natura luogo di lavoro e che ti dà da mangiare, vivi a contatto con il tempo – ha analizzato la Müller – ho sempre pensato che il paesaggio fosse minaccioso, non ne ero all’altezza. Il paesaggio sa infatti moltissime cose, ma tace, nella sua inimicizia e ostilità». Una tensione, quella che si apre nel divario tra la bellezza e la perfezione della natura e la guerra, come ha infatti proseguito l’autrice: «La tensione è rimasta: il paesaggio mi dava fastidio, ci sono state situazioni estreme in cui stavo male, non ce la facevo più a stare nel paesaggio e dovevo spostarmi all’interno. È la sensazione di chi ha vissuto la guerra: l’indifferenza della natura. Quando la vita diventa difficile gli occhi si ingrandiscono perché è il paesaggio a divorarti, è il silenzio».
È lo stesso silenzio della dittatura, dei regimi tra cui la Müller ha menzionato anche il fascismo, proseguendo nella sua riflessione: «Se non puoi esprimere il tuo parere, accetti. La grandezza allora sta nel tacere, impari a farlo e il silenzio diventa un’abitudine. È un modo di parlare: la dittatura infatti punisce anche per il silenzio. Io dovevo cercare di non rendermi colpevole, e se non potevo stare in silenzio dovevo dire bugie. Quando taci, però, capisci anche meglio cosa fanno gli altri, più dello stesso fatto di agire insieme agli altri».
Il tema della paura
Sullo snodo centrale della dittatura e dei regimi populisti è tornato nella sua intervista Andrea Bajani, che ha quindi interrogato Herta Müller sul tema della paura, strettamente legato al silenzio nel contesto dei regimi, come quello di Ceaușescu in cui l’autrice si è trovata coinvolta. «Si tace per paura, di essere ascoltati o di avere dei nemici – ha spiegato l’autrice – ma le parole sono anche un segno di coraggio: ciò che si fa con la scrittura è riguardare la propria vita attraverso la lingua. La paura ti fa venire il coraggio, e il coraggio la paura. Se sei nemico in uno stato dove c’è una dittatura e le autorità se ne accorgono, non riuscirai a uscire da questo cliché, e cambiare non è possibile. Se diventi cinico, però, è un rischio: non riuscirai a dominarti e sarai punito doppiamente». La paura è emersa come perno dello stato di dittatura, mai assente. È stato lo spunto per riagganciarsi al presente e alla situazione politica dell’Europa, tra populismi e nuove ondate di terrore. «I populisti fanno paura – ha esordito il premio Nobel – producono la paura e ne approfittano, diventa uno strumento di potere: ci sono persone specializzate nel fare questo. Strumentalizzare la paura e mantenerla viva non deve infatti diminuire la sua intensità: se vuoi una società rigida e se vuoi controllare le persone, puoi farlo solo con la paura».
La letteratura come strumento di democrazia
Il riferimento all’attualità è riemerso nella domanda di Bajani che includeva insieme i discorsi sull’impoverimento della lingua e sulla paura e il silenzio: serve, tutta questa esperienza vissuta, per riconoscere le nuove dittature? Oppure sono solo tracce di un passato novecentesco? «Ci sono nuove dittature – non ha mancato di osservare la Müller – pensiamo alla Turchia, alla velocità con cui una dittatura mostruosa sta venendo a galla con paura, miseria, esilio. Pensiamo all’est Europa, alle mezze democrazie dove avvengono ritorni, come in Ungheria, tra corruzione, insicurezza e mancanza di orientamenti. Ci sono le dittature religiose, la Cina comunista, la Russia di Putin, il Venezuela, il Nicaragua…. È terribile per chi pensava fosse finita e invece vede dei ritorni, non c’è la speranza che possano scomparire e spesso le cose non si possono cambiare. Ed è un bene allora che le persone non abbiano conosciuto la dittatura, che abbiano la mente libera per capire quando si creano situazioni del genere: gli Usa non diventeranno mai una dittatura, anche se Trump è un distruttore.
E le parole, la scrittura, la letteratura? «La letteratura non fa il male – ha concluso l’autrice – altrimenti non vorrei farne. Avrei voluto vivere in democrazia, certo, non mi sarebbe dispiaciuto imparare un altro mestiere. Ma la vita non è fatta per essere scritta: la lingua è artificiale, a suo modo diversa da quello che si è vissuto. È l’esperienza però che entra nella letteratura, le cose più difficili hanno un peso maggiore nella lingua e anche se si scrive tutto, come è possibile fare, la scrittura resta qualcosa che ti tormenta. Ho paure di non farcela, e che le parole mi tornino come quello che ho vissuto, e mi facciano male. Ecco, il male che ho vissuto è nella letteratura, nell’arte e resta in ogni ricordo».
Herta Müller ha ricordato così Primo Levi, torinese, che non riuscendo a liberarsi dal male che rifletteva nella propria vita l’ha distrutta definitivamente, non è riuscito a portare via da sé il tormento: «Che cos’è la letteratura – si è allora data una risposta – se non cercare di mettere in un’altra forma quel che c’è senza parlargli a quattr’occhi? La lingua può organizzare le cose in maniera diversa grazie alle metafore e alla poesia, si può essere precisi anche se la verità è inventata. La tensione per cui la lingua è così bella è questa, ed è il motivo per cui scrivo volentieri: perché la lingua è bella, e perché ho paura». (Le foto sono di Alessandra Chiappori)
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