Un altro pezzo di “autobiografia” che è strumento di indagine sociale ed esistenziale per Annie Ernaux, con il romanzo breve “Una donna”. La scrittrice racconta la vita della madre anche per liberarsi dal senso di colpa di averla condotta in una casa di riposo…
“Mia madre è morta lunedì 7 aprile nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise, dove l’avevo portata due anni fa. Al telefono l’infermiere ha detto: « Sua madre si è spenta questa mattina, dopo aver fatto colazione». Erano circa le dieci”. Questo è l’incipit di Una donna (99 pagine, 13 euro), pubblicato dalla casa editrice L’orma nella traduzione di Lorenzo Flabbi, con cui la scrittrice Annie Ernaux conferma di essere una delle voci più autorevoli del panorama culturale francese, capace di reinventare il genere letterario dell’autografia che, nei suoi libri, non è solo il racconto della propria vita, ma un vero e proprio strumento di indagine sociale ed esistenziale.
Il conflitto tra due modelli femminili
In poco meno di cento pagine, la Ernaux racconta la vita e la morte di sua madre, il suo rapporto con la donna che, più di tutte, l’ha influenzata; un rapporto che ha cambiato sembianze nel corso della sua esistenza di figlia, dall’infanzia, all’adolescenza, fino all’età adulta. È un legame ambivalente e complesso e, per ricostruirlo, la scrittrice ripercorre la vita della madre, nata povera, ma con l’ambizione e la determinazione di ribaltare le proprie condizioni, di proiettare i propri desideri sulla figlia nella speranza che il sangue del suo sangue riesca dove lei ha fallito. Dal canto suo, l’autrice ha dovuto barcamenarsi tra la soddisfazione dei desideri materni e la ricerca della propria identità, una “collisione” tra un modello femminile a cui fare riferimento e da cui differenziarsi, allo stesso tempo.
Tra tutti, era mia madre a portarsi dentro più violenza ed orgoglio, una rivoltosa lucidità sulla sua posizione sociale di subalterna e il rifiuto di essere giudicata solo in base a quella. Una delle sue riflessioni frequenti a proposito dei ricchi: «valiamo quanto loro»
Madre ma anche donna
Nelle pagine del libro, è prima alla donna che guarda la scrittrice. La nascita in Normandia, il lavoro in campagna e, poi, in fabbrica e in negozio: la fierezza di essere operaia in una grande fabbrica di margarina che, per lei, ha rappresentato “qualcosa come essere civilizzata rispetto alle selvagge, le ragazze delle campagne che continuavano a star dietro alle mucche”; il sogno di essere commessa in un negozio; il desiderio di godersi la giovinezza, ma anche l’ossessione di essere “mostrata a dito” a causa di tale desiderio. E, ancora, il matrimonio vissuto come “la vita o la morte, la speranza di cavarsela meglio in due o il tracollo definitivo”, i vestiti, i capelli, i rapporti con i clienti del negozio, i libri letti per mettersi alla pari con gli altri. Sono tessere di un puzzle, quello della vita di donna, che hanno avuto forti influenze sulla vita di madre. La stessa madre che fa studiare la figlia, la vede sposarsi, avere figli e separarsi dal marito, con l’unico intento di donarle tutto ciò che le è mancato, soprattutto la cultura.
Il suo desiderio più profondo era darmi tutto ciò che non aveva avuto lei
Raccontare, una catarsi
Ernaux racconta la vita della madre per liberarsi dal senso di colpa di averla condotta in una casa di riposo, malata di Alzheimer; per osservare il proprio rapporto con la madre da un’altra prospettiva (“Scrivendo, vedo ora la «buona» madre, ora la «cattiva». Per sfuggire a quest’oscillazione che ha origine nella più remota infanzia cerco di descrivere e spiegare come se si trattasse di un’altra madre e di una figlia che non sono io”). Attraverso una narrazione semplice, scorrevole, ripercorre un’antitesi che ha accompagnato madre e figlia per tutta la vita, l’antitesi tra il desiderio di avvicinarsi (“Tra noi si era instaurata una complicità di letture, di poesie che le recitavo, di pasticcini nella sala da tè di Rouen”) e il bisogno di allontanarsi (“Con l’adolescenza mi sono allontanata da lei e tra noi c’è stato soltanto conflitto”).
Il suo racconto è una vera e propria catarsi, ma, allo stesso tempo, un disperato bisogno di tenere in vita la madre, tanto che la stessa autrice rivela di avere paura di terminare il libro, perché vorrebbe dire farla morire, per sempre.
“Questa non è una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia. Era necessario che mia madre, nata tra i dominati di un ambiente dal quale è voluta uscire, diventasse storia perché mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata”.
Un progetto di natura letteraria
La scrittrice francese è consapevole che le parole hanno il potere di distruggere e di creare e le utilizza per cercare la verità su sua madre ( “Può essere raggiunta solo attraverso le parole”): attraverso l’inchiostro su carta bianca tenta di unire, di sovrapporre la donna demente che è diventata alla fine della sua esistenza con quella forte e determinata che era stata (“Ora è tutto legato”). Sono parole intrise di dolore, di malinconia in cui molte madri e molte figlie posso ritrovare diversi elementi del rapporto più conflittuale che possa esistere: la difficoltà di comunicare, di farsi comprendere; l’incapacità di accettare l’idea che due esistenze, sebbene strettamente legate l’una all’altra, possano percorrere strade diverse; l’impossibilità che queste due strade si intersechino durante il lungo cammino. Frasi e parole che aprono cicatrici, lasciano ferite come coltellate. Annie Ernaux ha la grande capacità di rendere comune il racconto del dolore per la perdita della madre, con una prosa ricca di quell’umanità che solo la narrazione di un rapporto intimo, fatto di gesti quotidiani, sa donare.
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