“Un’Odissea” dello scrittore americano, che pure è un libro molto personale, fa cambiare prospettiva sul poema omerico. Un volume folgorante, con pochi termini di paragone nel panorama attuale. E che ci ricorda anche altro, per esempio, sulle storie e sull’amore
Chi è Daniel Mendelsohn? Il fine e temuto critico letterario di Bellezza e fragilità? Colui che strappa all’oblio una famiglia del prozio, a partire dalla lettura di qualche lettera, con la stesura de Gli scomparsi? Un docente universitario dalla profonda cultura e dalla formazione classica, come suggerirebbe il suo più recente libro tradotto in italiano? O, più semplicemente, “solo” un figlio, come si evince dallo stesso libro, Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea (307 pagine, 20 euro)? Uno scrittore, forse, non è veramente tale, fin quando non mette le mani nella materia incandescente che riguarda se stesso o i familiari più prossimi e lo trasfigura con le armi della letteratura.
Genitori e figli
A quello che possono chiedersi i lettori sull’americano Daniel Mendelsohn, s’aggiunge qualche altra possibile domanda su uno degli oggetti del suo ultimo libro. Ovvero: cosa è il poema omerico conosciuto come l’Odissea? Un travolgente libro d’avventura con elementi fantastici? La storia di un viaggio, per mari e per terre, e contemporaneamente la ricerca interiore di un uomo e di ogni uomo? Un coacervo di motivi classici e l’origine di molte cose ancora vive nel mondo moderno e contemporaneo? Oppure, più semplicemente, un enorme romanzo familiare, con l’obiettivo puntato sul rapporto tra genitori e figli? Nel tempo si cambia idea. A una conclusione del genere, forse, è più semplice arrivarci a una certa età o, comunque dopo la lettura di questo ultimo libro di Mendelsohn, che in Italia è stato tradotto da Norman Gobetti (Roth e Amis, Hamid e Adiga, Ghosh) ed è stato pubblicato da Einaudi. Un libro folgorante con pochi termini di paragone, specie nel panorama attuale.
Un padre geniale
Condividere una crociera verso la mitica Itaca e lo stesso spazio universitario in cui Mendelsohn portava avanti un brillante seminario sull’Odissea è servito al figlio Daniel a farsi largo fra le maglie del cuore del padre Jay, la cui scomparsa è stata la spinta definitiva alla stesura di un testo molto intimo. La perpetua irrequietezza dell’eroe è uno dei motivi di confronto fra le generazioni di Mendelsohn. Anche a partire da una poesia di Kavafis, appunto Itaca, che illustra un cliché della cultura popolare, «ovvero che il viaggio è più importante della metà», uno dei tanti cliché a cui Jay, matematico e ricercatore scientifico, si ribella opponendo concretezza e pragmatismo: «io ovviamente credo nei risultati, nell’ottenere qualcosa». Strada facendo Daniel scoprirà che, forse, non era esattamente così. Dopo la morte di Jay, verrà a sapere della possibilità che aveva avuto di diventare un ufficiale dell’esercito e di come pure l’aveva scansata nonostante la sua «ossessione per la cultura, per i titoli di studio, ottenere risultati, arrivare ai vertici». E si sentirà dire, cosa che profondamente sa dentro di sé, che il padre era «geniale. Ha cominciato con poco, ma ha imparato molto».
Il bisogno di storie e la bizzarria dell’amore
Non solo di un padre e di un figlio si legge in Un’Odissea. C’è più di una riflessione che per chi ama leggere e per chi ama scrivere è tutto, o quasi. Il bisogno di narrazione che serve per dare un senso al mondo, ad esempio. L’insopprimibile percorso che porta a far diventare tutto una storia. E poi questo libro di Mendelsohn ci ricorda anche altro: di nuovo attraverso le parole del padre Jay, dopo aver canticchiato una canzonetta, la bizzarria dell’amore: «Una persona può essere piena di difetti, sei consapevole di tutto ciò che non va in lei, eppure la ami». Voilà. (3-continua)