“Himmo di Gerusalemme” dello scrittore israeliano è una storia d’amore, una riflessione sulla vita e sulla morte, una lezione di umanità, quella che impartisce l’infermiera Hamotal a Himmo, ex seduttore gerosolimitano ridotto a un relitto umano
Una bocca, perfetta e carnosa, che la prega di sparargli. E tutt’intorno un corpo a pezzi, in disfacimento, come l’anima. Questa è la scena con cui si trovano a fare i conti gli occhi di Hamotal Horowitz, infermiera di Tel Aviv, giunta all’ospedale da campo monastero di San Gerolamo di Gerusalemme, per occuparsi dei feriti più gravi della guerra in Israele nel 1948, nell’inverno di quell’anno. Il romanzo è Himmo Di Gerusalemme (160 pagine, 17 euro) di Yoram Kaniuk, tradotto da Elena Loewhental, che trova vita in libreria a mezzo secolo dalla sua primissima apparizione ed era inedito in Italia. La casa editrice Giuntina, che aveva da poco ripubblicato Adamo risorto (di qualche anno successivo), torna subito a rilanciare un romanzo del grande scrittore israeliano ed è… un’altra meraviglia. Di mezzo c’è la guerra del ’48, che fa capolino in altri romanzi di Kaniuk, testimone in prima persona del conflitto.
L’eco delle bombe, aspettando vita o morte
Una meditazione sulla vita e sulla morte. Ecco cosa è prima di tutto Himmo di Gerusalemme. E poi una storia d’amore, tra un’infermiera e un ferito di guerra. Dopo Addio alle armi di Hemingway e prima de Il paziente inglese di Ondaatje. Gerusalemme non è immersa nel silenzio e nella pace in queste pagine di Kaniuk: l’acqua scarseggia, risuonano echi di cannone e l’assedio della Città santa da parte degli arabi si fa sempre più duro. Il personale sanitario che lavora nel monastero divenuto ospedale, quasi un mondo a parte, fanno i conti con feriti più o meno gravi e con la cronica mancanza di medicine e anestetici. Spicca Himmo, tra i feriti, gli altri lo chiamano “pupazzo”, ma fa in fretta Hamotal (dopo la morte del fidanzato in guerra) a innamorarsi di lui o, meglio, di quel che resta di lui: gli dedica premure e le cure più assidue, interrogandosi (fra sé e sé nel confronto col dottor Neuman, nelle conversazioni con Clara, monaca colta e scurrile, e con Moshe Abayoff, direttore dell’ospedale) su quanto a lungo si possa prolungare una vita con l’aiuto della medicina, fino a quando un’esistenza meriti d’essere vissuta. La bocca è quello che resta a Himmo Farrah della sua vita precedente: un seduttore amato dalle donne, ridotto a un tronco quasi senza vita, privo dei quattro arti, rimasto cieco, a soli vent’anni. Alle sue sofferenze si dedica instancabilmente Hamotal. Attorno a loro varie anime a caccia di normalità, serenità, solidarietà, pazienti derelitti che sognano e attendono il ritorno alla vita, gelosi del rapporto esclusivo che si crea fra Himmo e l’infermiera, ma infine consapevoli che le loro piccole o grandi sofferenze non sono paragonabili a quelle indicibili dell’uomo che dice continuamente di voler morire, e che però migliora, assistito da Hamotal, e in qualche modo rinverdisce i fasti di re, creando scompiglio tra i compagni di sventura.
Una lezione di umanità
La scena più poetica del romanzo di Kaniuk? Quando Hamotal mette il suo materasso fra quello di Himmo e la porta che conduce all’ala della morte. Per un ferito o un malato quello era l’ultimo passo verso la fine, lei vuol fargli capire qualcosa, ancora una volta, anche se la vita sta svanendo: è l’ennesima lezione di benevolenza e umanità, quella che non si deve smarrire mai, quella che l’infermiera vuol trattenere fino alla fine, ancora più dell’ossigeno nei polmoni del suo paziente.