Palermitano, trentadue anni, debutta con “Di niente e di nessuno” per la casa editrice Fazi: una storia tenera e feroce di emancipazione dal degrado e di superamento della linea d’ombra, protagonista un liceale, portiere nei campetti polverosi, con un padre delinquente e una madre remissiva e amatissima. “La letteratura deve trasmettere qualcosa e il suo linguaggio va riformulato, voglio parlare a tutti, senza assecondare l’ignoranza di nessuno. Sono cresciuto a pane e Pasolini, ma il mio scrittore preferito è Saramago”
Insegna lettere in un liceo di Monza, ama i libri che lo fanno stare male e gli insegnano qualcosa e ne ha scritto uno che ha tutta l’aria di poter arrivare lontano. Dario Levantino, palermitano, classe 1986, esordisce per l’editore Fazi con Di niente e di nessuno (159 pagine, 17,50 euro), smilzo ma potente romanzo che ha per protagonista il liceale Rosario (nella fiction è il nome del nonno del protagonista, nella realtà un omaggio a quello del padre dell’autore). La casa editrice romana ha scelto la sua proposta, arrivata via mail nella casella dedicata ai manoscritti – aperta solo per due finestre di un paio di mesi l’anno – ha puntato su di lui senza indugio e adesso lo lancia nel mare tempestoso dei debuttanti delle lettere. Levantino fa i conti con le inevitabili emozioni del debutto e con un giro di presentazioni che lo porterà dalla città natale ad altre quattro, cinque tappe in Italia, per ora compatibilmente al lavoro di insegnante. Il suo è un romanzo di formazione che ha come protagonista Rosario, liceale che si muove fra la Palermo bene (lì c’è la sua scuola), il quartiere di Brancaccio dove abita e i campetti polverosi di un’altra periferia poco lontana, quella della zona di via Messina Marine, dove si cimenta come portiere in una squadretta immaginaria ma verosimile, la Virtus Brancaccio. Padre delinquente (che smercia sostanze stupefacenti dietro la facciata “pulita” di un negozio di integratori per sportivi), madre amatissima, malata e dolente, il giovane Rosario cresce in fretta, in un cocktail rutilante di amore, menzogne e violenza. Una storia tenera e feroce, quella di Dario Levantino, con uno stile che la eleva rispetto a tante altre storie di emancipazione dal degrado e del superamento della “linea d’ombra”.
Levantino, come è approdato alla scrittura di questo romanzo?
«Amo la mitologia (come Rosario, protagonista di Niente e di nessuno), credo ci possa insegnare tantissimo. Mi ha sempre affascinato come gli antichi, di fantasia in fantasia, capissero molte dinamiche della vita. E in particolare c’è una cosa che ho sempre amato, il concetto di pietas, non quella che viene tradotta semplicemente ed erroneamente come pietà cristiana, ma un concetto che non esiste più al giorno d’oggi, non almeno espresso con una sola parola, è un mix di sentimenti che incrocia l’amore incondizionato e spropositato nei confronti dei genitori e il senso del dovere. Quello che, per intenderci, anima Enea durante la sua fuga da Troia che brucia. Tra le macerie fumanti della città si carica sulle spalle il padre Anchise, che vorrebbe restare per non rallentare la partenza del figlio, è una scena meravigliosa, poetica. Anche il mio Rosario a un certo punto si carica sulle spalle la madre. Volevo ricreare la pietas classica nella periferia difficile di Palermo, a Brancaccio, nel terzo millennio».
Una storia piuttosto realista, quella che ha scritto, come il linguaggio adoperato…
«Credo che molta letteratura oggi non ci parli più. Ho insegnato a Taranto, dove la massima ambizione degli studenti era far parte dell’esercito o lavorare all’Ilva ed è stato semplice rendersi conto come a questi ragazzi, come a moltissimi altri loro coetanei, non possa interessare per nulla D’Annunzio e l’esperienza panica di certe sue poesie. Non biasimo questi miei ex alunni. Parto dal presupposto che la letteratura debba trasmettere e insegnare qualcosa, e che molto del linguaggio a cui ci ha abituato sia da riformulare. Il mio romanzo deve sapere parlare a un tascio, per dirla in palermitano, a uno che non ha peli sula lingua e che non teme di utilizzare l’indicativo al posto del congiuntivo, a chi parla l’italiano regionale e non quello standard e posticcio che forse utilizzano solo gli attori teatrali che hanno studiato dizione o, erroneamente, in certi film i bambini di quattro anni che azzeccano i congiuntivi. Questo, naturalmente, non significa che io voglia assecondare l’ignoranza del lettore».
Il suo obiettivo è sempre stata la pubblicazione? Come procede nella scrittura?
«Non appartengo a quella schiera di autori che vedono la scrittura come ricerca spirituale. Certamente scrivere è qualcosa che mi fa stare bene, ma ho sempre mirato alla pubblicazione e, dopo molti tentativi, ho fortunatamente trovato Fazi, una casa editrice fantastica e molto professionale. Mi hanno detto che il mio è stato scelto fra moltissimi manoscritti, posso dire che la fortuna gioca un ruolo importante nelle nostre vite. Devo fare una statua a Giulia, la prima della casa editrice Fazi che ha visto qualcosa di buono nel mio lavoro, che ha superato varie fasi di selezione, conclusasi con un colloquio nel luglio 2017. I mesi che sono trascorsi prima della pubblicazione li ho trascorsi a dialogare con tre editor. Pensavo, ingenuamente ed erroneamente, che l’editing servisse a rivedere qualche passaggio infelice, a eliminare qualche errore di battitura, e invece mi sono messo in discussione, con un lavoro duro, spesso di ragionamento su singole questioni narrative, sui tempi del racconto. Ho un modo di scrivere strano. Parto da un’idea, da una curiosità e poi passaggio chiama passaggio, scena chiama scena, non dico che il frutto di una specie di monologo interiore, ma dopo aver immaginato questo ragazzo della periferia palermitana e sua madre, tutto il resto è stato funzionale».
Un approccio felice, quello con il mondo dell’editoria…
«Relativamente, potrei anche raccontarne peste e corna, con varie esperienze negative, presunte case editrici che volevano soldi o chiedevano di acquistarne mille copie. Anche qualche approccio con agenti letterari non mi ha convinto e, quindi, faccio tutto da me, con la Fazi che mi sta dando una grossa mano nell’organizzazione logistica di qualche presentazione. Oltre a editori e ad editor che s’improvvisano, comunque, il vero problema di fondo è che non ci sono i lettori, in Italia non si legge. Ogni volta che saltano fuori i dati sui lettori mi mortifico, sono quelli di un paese incivile. E non essendoci un pubblico, le case editrici sgomitano a più non posso…».
Per la pubblicazione, probabilmente, hanno fatto la differenza lo stile e la voce del romanzo…
«Mi è venuta istintiva. La vicenda non è autobiografica, perché io ho una famiglia splendida, ma io parlo, penso e sogno come Rosario. Non ho fatto fatica a caratterizzare questo personaggio, a dargli un’anima. Ho scritto anche altri romanzi, ma non con personaggi così riusciti, o con uno stile così definito. Stavolta mi è venuto tutto naturale, per ragioni che sfuggono».
Vive e lavora lontano dalla Sicilia. Le piacerebbe tornare?
«Mi sono trasferito al nord per questioni di cuore, è molto difficile ma vorrei tornare in Sicilia. Adoro la mia terra, sono come quelle madri che rimproverano i propri figli, ma nessuno deve permettersi di fare altrettanto. Magari parlo male della Sicilia, ma non permetto che altri lo facciano. Ci sono cose che non sopporto e mi fanno arrabbiare, certo immobilismo o lo scarso senso di comunità che abbiamo, però il fascino di Palermo è incredibile, tutte le volte che ho cercato di descriverlo l’ho fatto dicendo che è come il sorriso di un bambino con i denti storti, coem la schiettezza e l’imperfezione di una vocale aperta in un contesto formale. Francamente ho fatto fatica a ritrovare qualcosa di simile e magico altrove, forse solo in certe città di mare, con porti storici, Napoli, Bari, Genova e Marsiglia».
Ci sono scrittori che ama e che l’hanno influenzata?
«Ho letto qualcuno che ha paragonato il mio stile a quello di Pennac e Ammaniti e mi sono messo a ridere. Li conosco, ma non li annovero fra i miei autori preferiti. Per dire, ho letto un volume del ciclo di Malaussène e non mi ha fatto impazzire. Sono un lettore onnivoro, soprattutto di narrativa contemporanea. Un libro deve farmi stare male e deve insegnarmi qualcosa. Il mio preferito è Saramago, a cominciare dal suo “Cecità”, il libro pazzesco di un Nobel strameritato, una lingua della madonna, un’allegoria bellissima, e la capacità di raccontare con una prosa agile, sperimentale, con i dialoghi senza virgolette. E poi amo Moravia, per me il narratore più bravo del Novecento in termini di dinamiche psicologiche. Mi piace specialmente quando scrive in prima persona, non in terza. Cioè ho amato più “La noia” e “1934” che “Gli indifferenti” o “Agostino”. Amo De Carlo, Bukowski e Pasolini, sono cresciuto a pane e Pasolini, specie quando scrive di periferie, quello di “Ragazzi di vita” o “Una vita violenta”. Di Pasolini ho sempre apprezzato l’assenza totale di retorica, non vuole impressionare il lettore, il suo è un racconto schietto, che adopera il linguaggio delle periferie. Anche il suo cinema è letteratura, penso a “Mamma Roma” o ad “Accattone”. Poi ho letto, non col semplice intento di far trascorrere il tempo ma per imparare qualcosa, le sceneggiature di Age&Scarpelli, degli illuminati che hanno scritto la maggior parte dei film di Ettore Scola, capolavori come “La terrazza” e “Una giornata particolare” non hanno nulla da invidiare a grandi romanzi».
Nessuna influenza dai grandi siciliani?
«Li ho letti e li leggo, certamente, Consolo e Camilleri, ma quest’ultimo non quando scrive Montalbano. Non amo i gialli, che cosa insegnano? Che l’investigatore è il più bravo di tutti? Amo Bufalino, il suo stile incredibile, amo il suo “Le menzogne della notte” anche più di “Diceria dell’untore”, ma non sono capace di scrivere come lui, non posso dire di esserne stato influenzato».
E fra i viventi chi ama? I più bravi arrivano dall’estero?
«Non sono d’accordo. Ce ne sono di bravissimi e magari non tenuti abbastanza in considerazione. Penso a Lorenzo Licalzi, bravissimo, uno che ha iniziato pubblicando proprio per Fazi. E poi il regista Paolo Sorrentino ha una penna fantastica, si vede dai suoi romanzi e dai suoi racconti, ma anche dalla sceneggiatura del suo film “La grande bellezza”, che è scritta in modo incredibile e ho voluto leggere perché non avevo capito immediatamente il film. Per me “Acciaio”, il libro d’esordio di Silvia Avallone, è una cannonata. E non dimentichiamo Giorgio Vasta e il suo “Il tempo materiale”, che mi ha fatto stare male e quindi mi è piaciuto. Mi è capitato di incontrarlo e di dirglielo…». (La foto di Dario Levantino è di Elisabetta Mappelli)