“Eravamo tutti vivi” di Claudia Grendene è un debutto che non passa inosservato. Da metà anni Novanta fin quasi ai nostri giorni, a Padova, sette protagonisti fra amori e delusioni, matrimoni e divorzi, figli e disillusioni. L’anatomia di fallimenti e traumi narrati con compassione e indulgenza
Eravamo sette amici a Padova. Un debutto che non passa inosservato. “La morte cambia le cose dei vivi” è l’incipit che scaraventa subito il lettore in un presente doloroso. Un romanzo generazionale, di uomini e donne molto vicini al nostro presente, che sprigionano empatia, fin dalle prime pagine. E poco importano, per certi versi, la loro collocazione geografica e il loro microcosmo universitario e di relazioni, parlano a una platea più vasta. L’autrice è una bibliotecaria di ottime letture e studi filosofici, Claudia Grendene, che ha l’età perfetta per raccontare le storie e gli amori di sette personaggi, a ritroso nel tempo, dal 2013 alla metà degli anni Novanta. L’esordio si intitola Eravamo tutti vivi (282 pagine, 17 euro) e ci scommette su l’editore Marsilio, a cominciare dalla responsabile della narrativa italiana, Chiara Valerio.
Mozzi e i suoi fratelli
Nell’esordio di Claudia Grendene, veronese d’origine ma da sempre padovana, c’è però il tocco della Bottega di Narrazione del talent-scout Giulio Mozzi. Di colui cioè che a portato a galla Leonardo Colombati e Giorgio Falco, Alberto Garlini e Umberto Casadei (ma che fine ha fatto?), Laura Pugno e Tullio Avoledo, Vitaliano Trevisan e Alessandra Sarchi. Scrittore vero, specie di racconti, negli anni Mozzi ha affinato il fiuto per le pagine altrui, trascurando le proprie. Scelte poliedriche, talvolta eccentriche, senza nessun fil rouge a tenerle assieme, eccezion fatta che per la qualità della scrittura di autori che stanno quasi tutti reggendo all’onda d’urto del tempo, almeno di quello breve. E anche Grendene sembra tutto, fuorché un fuoco di paglia.
La comitiva del tempo che fu
“Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza”. Potrebbero chiederselo, come nell’incipit di Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, quasi tutti i personaggi di Eravamo tutti vivi. Quasi tutti tranne Max, Massimiliano Mercuriali (ha amato Agnese? ha amato Chiara? né l’una né l’altra?), che è morto in Messico, in circostanze poco chiare, e al cui funerale si ritrova tutta la comitiva del tempo che fu. Potrebbero chiederselo tutti, cresciuti assieme, più o meno uniti ai tempi dell’università – che come tutti hanno fatto i conti con disagio e solitudine, violenze e difficoltà economiche – poi travolti dalle vite, da matrimoni, figli, tradimenti e separazioni, perfino dall’aver creduto (ma fino a quanto) in certa lotta politica, nell’antagonismo. Sono eredi della sconfitta, per citare il titolo di uno splendido romanzo dell’indiana Kiran Desai. Speranze e sogni si sono accartocciati, il mondo non è migliorato. E Grendene mette sulla pagina un grado di partecipazione viva, che fa la differenza.
Impossibile restare in piedi
Naturalmente il gruppo di Eravamo tutti vivi è sfaccettato e tutt’altro che monolitico. Non tutti si sposano, non tutti navigano nell’oro, non tutti credono nell’amore (quelli che ci credono di più sono Alberto e Anita, cugini, osteggiati dalle famiglie). Tutti, indistintamente, sbagliano qualcosa, s’inceppano, disillusi falliscono. Per gli errori, però, c’è indulgenza, nello sguardo di chi narra, Grendene non affonda il colpo, non mette in croce le sue “creature”. Le sconfitte pesano, restano, lasciano il segno, ma c’è un filo di comprensibile compassione nella terza persona singolare che racconta, non meno sincera e viva di quanto sarebbe stata una prima. I desideri sono sfumati, peggio, si sono disintegrati, certe paure (su tutte, quella di restare soli) si sono concretizzate, e il mondo – azzerate le ideologie, emerso come preponderante un precariato che è prima di tutto esistenziale – è cambiato a velocità vertiginosa. Era impossibile restare in piedi, fra traumi e fughe, amori e divorzi. Era impossibile restare vivi.