Il poeta friulano si cimenta con successo nel romanzo. Il suo “Bestia da latte” è un testo di grande intensità, armonioso, piacevole, in una parola, pieno. Tra dolori infantili, famiglie patriarcali e un variegato affresco della regione natale dell’autore, travalicando il locale, diventando universale…
La gru andava via con un giro lento dietro i nocciòli.
Era settembre. La casa era quasi finita
e sarebbe rimasta così per sempre,
con i ferri ricurvi in terrazza,
la malta grezza ai lati della scala.
Il rampicante rischiara la parete,
ricopre il muro, la rete dell’orto.
Lo zio era un ragazzo quando è morto.
Poi altre estati calcinarono le vertebre,
inverni gelarono i nervi del grande corpo contorto
di lobie, stalle, tettoie.
Le automobili dalla statale
proiettano a lampi sopra il letto
il negativo delle persiane
prima di addormentarmi.
Inizio sempre da qui, lo sguardo fisso
nel buio: ricostruisco la casa vecchia.
E mi inabisso
con i visi e le mani che si pensano,
proprio quando è il momento di riunire
tutti in cucina, con le voci che feriscono
per proteggere, mentono per salvare.
Utilizzare dei versi per introdurre Bestia da latte (153 pagine, 16 euro), edizioni Sem (Società Editrice Milanese), ultimo libro di Gian Mario Villalta è inizio irrituale per un consiglio di lettura, a meno che l’autore sia anche ottimo poeta, e La casa vecchia, sua lirica del 2011, somigli a una profezia del romanzo futuro, dove, a colpi di ricordi, si ricostruisce, appunto, la vita in una casa vecchia del Nordest partendo proprio dalla morte di uno zio.
Ormai adulto e già alle prese con i dubbi e le fatiche del mestiere di padre, la voce narrante di Bestia da latte, alla morte dello zio Angelo, si ritrova nuovamente scaraventato nel “tempo rimasto troppo a lungo sotto il peso di un silenzio” , durante il quale fu costretto ad ingoiare le vessazioni, compreso l’offensivo soprannome di Zhoca (testa di legno) appiccicatogli addosso fin dalle elementari, del cugino Giuseppe.
Una vittima e un aguzzino
Una vittima accudita amorevolmente dai genitori ma lasciata sola ad affrontare il terrore dell’aguzzino. Un carnefice che sfoga con la violenza sull’altro la propria frustrazione per l’abbandono materno. Due bambini costretti a una coabitazione tossica per entrambi, tirati su con modalità e fini diversi: non badando a spese d’istruzione il protagonista, affinché venga su “bestia da latte” che eccella in qualità “per risarcire il costo del proprio allevamento”, e con il minimo investimento Giuseppe, nella prospettiva di farne “animale da carne”, ingozzato “di lavoro, di sogni erotici, di soldi, di bere e di mangiare”.
Intorno a questo nucleo primigenio di trama prende corpo la narrazione di Villalta, la quale, lungi dall’esaurirsi nelle vicende dei due giovani osa molto altro.
Parole eleganti, coinvolgenti, essenziali
È, infatti, un racconto densissimo questo Bestia da latte, la cui bellezza trae linfa, in eguale misura, dall’eleganza della scrittura, emotivamente molto coinvolgente sebbene orientata all’essenzialità, e dalla stratificata ricchezza dei contenuti, in virtù dei quali il romanzo travalica di misura i confini regionali dell’originale ambientazione.
“Avevo scoperto che, attraverso le parole, si poteva immaginare, sentire e vedere in modo diverso e più profondo rispetto all’orizzonte limitato e opprimente di casa mia”. Grazie a tale formidabile scoperta, e a dispetto del confessato timore di non riuscire ad esprimersi in modo efficace, mentre fruga tra le pieghe del suo dolore infantile, il protagonista offre al lettore un affresco variegato del Friuli, pregevole dal punto di vista storico, sociologico e perfino pedagogico. Villalta spazia dalla rivoluzione in atto nelle provincie italiane, dove “le cose cambiavano intaccando a fondo un sistema a lungo accettato e scatenando i conflitti più aspri”, al boom economico degli anni sessanta, con la conseguente onda lunga dei miglioramenti urbanistici a livello territoriale. Tratteggia l’evoluzione delle famiglie patriarcali verso strutture nucleari, sottolineando l’erosione del modello educativo tradizionale secondo il quale “allevare i figli significava insegnare loro con la violenza a piegare ogni desiderio alle consuetudini della famiglia e alla volontà del padrone di casa”. Si spinge, nelle pagine conclusive, ad indagare, con acume e delicatezza, la declinazione più moderna del rapporti genitori-figli.
Complessità ed equilibrio, tra detto e taciuto
Una complessità gestita da Gian Mario Villalta con ponderato equilibrio, amministrata razionando con destrezza il detto e il taciuto, mantenendo impliciti taluni ragionamenti, umori e sentimenti, cesellando la psicologia dei personaggi là dove era necessario, lasciando il compito all’intuito del lettore dove invece la sensibilità e l’esperienza di ciascuno può supplire alla sua penna.
Il risultato raggiunto è un romanzo di grande intensità, armonioso, piacevole, in una parola, pieno.
Di ogni lettura ciascuno mette in serbo qualcosa.
Di Bestia da latte, da parte mia, conserverò il cenno alla luce da est che illumina il Friuli e questa perla: “E ho scoperto una contraddizione che devo riconoscere e non smettere mai di affrontare: siamo consapevoli soltanto di una piccola parte di ciò che ci accade, mentre invece ci sentiamo per intero responsabili di noi stessi, anche di quello che è un destino, che cioè non dipende da noi e non possiamo modificare. E questa è per tutti una responsabilità troppo grande”.