Una conversazione con la scrittrice Laura Pariani: dall’ultimo romanzo, “Di ferro e di acciaio”, alla gratitudine per Elvira Sellerio, dai romanzi in coppia con il marito alle preferenze da lettrice. «Non cerco libri per prendere sonno, ma che mi emozionino con la scrittura, la struttura, i personaggi. Il più delle volte sono di autori stranieri»
Nelle ultime settimane una delle signore della letteratura italiana, Laura Pariani, ha lasciato spesso la sua casa vicino al lago di Orta. Sta presentando in giro per l’Italia il suo più recente romanzo, Di ferro e di acciaio (187 pagine, 14 euro), pubblicato dall’editore NN (con una magnifica copertina di Elisa Talentino), primo titolo della serie CroceVia curata da Alessandro Zaccuri (ne aveva parlato in questa intervista), seria incentrate su alcune parole della tradizione cristiana, vocaboli tutt’altro che logori, anche se spesso possono essere bistrattati e banalizzati; Di ferro e di acciaio di Laura Pariani è una rivisitazione distopica, tra neologismi e termini in dialetto lombardo, della Passione di Cristo, ambientata in un prossimo futuro, un libro sull’importanza della passione (dal significato ambivalente) contro la negazione della libertà; protagonista il soggetto-23.017 (Maria), donna vestita di nero che s’aggira per la Città in cerca del figlio Jesus, scomparso…
Pariani, quale è stata la genesi del romanzo?
«Alessandro Zaccuri, che conosco da parecchio tempo, mi raccontava che aveva in mente una serie di libri a partire da certe parole che venivano da lontano, dalla tradizione, mi ha chiesto se ero disponibile a lavorare su un testo del genere, a partire dalla parola passione. Davanti a una bella sfida non mi tiro indietro, per me è stato complicato ma importante. La parola passione mi ricorda il contrario dell’indifferenza e dell’impassibilità e si incrocia col significato di sofferenza estrema, quella della Via Crucis, ho cercato di conciliare questi due aspetti».
La sua passione di Cristo è ambientata in un preoccupante mondo che verrà…
«Immagino, in un futuro prossimo, l’instaurazione di una dittatura che limita le libertà e di un pensiero unico, dopo quella che chiamo la guerra dei cinquanta minuti. Dentro il futuro dietro l’angolo che racconto c’è tutto l’orrore del Novecento e quanto ancora oggi succede. Non ho inventato chissà cosa, la soppressione dei diritti, la proibizione della musica, i roghi dei libri e le persone trasformate in numeri, beh, sono tutte cose già successe, non ho inventato chissà cosa».
Il suo punto di vista sul Vangelo è decisamente femminile. Perché?
«Nel Vangelo ci sono tante donne ed enorme è il seguito femminile che ha Gesù, ma non viene mai rimarcato abbastanza. Per dire, è Maria di Magdala la prima a vederlo risorto. Ho pensato a un Vangelo speciale, a un racconto dal punto di vista di quelle che hanno seguito Gesù: c’era chi ci credeva, ma anche quelle che dubitavano o si sono opposte. Essere donne non vuol dire necessariamente essere perfette o capire ogni cosa. Nella mia storia ci sono anche donne che stanno dalla parte del potere e non da quella di Jesus».
Un Gesù molto umano e poco divino. Ispirato a chi?
«Il mio Jesus è un giovane in carne e ossa del prossimo futuro, che crede in certi valori e per cui la memoria è importante. I modelli del mio Jesus sono i desaparecidos argentini, liceali e universitari che avevano solo la colpa d’essere giovani. Nella madre che lo cerca, fra gli amici e chi lo conosce, e prova a capire il suo arresto e a dare un senso a questa storia, rivedo le madri che non capiscono cosa fanno i figli o sanno poco di loro. E ho pensato a quelle di plaza de Mayo, che hanno combattuto, anche perdendo la vita, per cercare i figli».
L’eterno ritorno dell’Argentina nella sua narrativa…
«Un riferimento costante a cui non posso non tornare, perché fa parte della mia storia personale (Pariani ha vissuto in Argentina, in gioventù, ndr)».
Eppure il romanzo si svolge nell’Italia del nord. Perché?
«Ho immaginato un’unica grande città fra Milano e Torino perché la gente rifletta sul fatto che certe cose possono accadere anche a due passi da noi, in luoghi che nessuno assocerebbe al dramma della negazione delle libertà, e non sempre dall’altra parte del mondo. Mi sembra un aspetto che abbia colpito la gente, o almeno ho avuto questa impressione nelle ultime settimane, quando ho presentato il libro».
Lei è lombarda e molto legata alla sua terra, ma forse anche un po’ siciliana…
«Certamente amo Palermo, una città carica di storia, affascinante, che mi è cara anche perché ho pubblicato i miei primi libri tre libri con la casa editrice Sellerio. Elvira Sellerio è stata la prima persona che ha creduto in me, che ha letto qualcosa di mio, pensando ci fosse della stoffa. La letteratura siciliana, poi, fa parte della mia formazione, libri strabilianti, da Verga e Bufalino, Sciascia e Consolo, diversi da certe linee della letteratura italiana, che mettono in agitazione e regalano emozioni fortissime. Lessi a bocca aperta i primi libri di Bufalino, domandandomi perché non potessi scrivere anche io cose del genere…».
Da qualche anno è tornata a pubblicare per Sellerio…
«Due romanzi e alcuni racconti in antologia, in coppia con Nicola Fantini, mio marito. Lui è traduttore di fantascienza anni Ottanta e Novanta, quella vera, e poi si è dato al romanzo gotico. Conoscendoci molto bene, reciprocamente, è stato abbastanza semplice scrivere assieme. Ci piace e ci diverte discutere la trama e poi scrivere un po’ l’uno. È stato un bel ritorno a casa, con Sellerio, anche se le nostre sono storie poco in linea col catalogo di dell’editore palermitano, dove prevalgono i gialli. A me piace sempre la letterarietà di un testo, Nostra Signora degli scorpioni ha una trama piemontese e c’è di mezzo Dostoevskij. Che Guevara aveva un gallo è un libro d’avventura e mistero, alla Salgari, qualcosa che in Italia è molto poco praticato…».
Dal suo punto di vista, quale è lo stato di salute della letteratura italiana?
«Non è una risposta semplice, mi servirebbe forse più tempo, per articolarla bene. Posso dire che faccio parte delle giurie di vari premi, nazionali e internazionali. E spesso mi rendo conto di come i libri più interessanti siano di autori stranieri. Molti di quelli italiani sono o piegati sulla linea del giallo o attorcigliati su vicende molto personali, su storie di famiglia, su coppie in crisi o su nonni che muoiono… Credo ci sia una dilagante melassa di sentimenti, ricorda un po’ certi modelli televisivi, ricorda serie tv che vengono propinate. Io sono più interessata a libri che mi facciano riflettere, che sono imperniati su grandi temi e di grandi temi mi facciano scoprire territori nuovi. Non mi piacciono le piccole storie e i loro grovigli mentali che sono il nostro quotidiano. I libri non dovrebbero essere la fotografia o la fotocopia del nostro quotidiano, per raccontare certe cose ci sono i giornali. Dai libri voglio essere stupita».
Quali libri dall’estero, fra quelli di recente tradotti, l’hanno colpita?
«Mi emoziona molto quello che stanno scrivendo certi francesi in questi ultimi anni. Naturalmente la situazione, oltralpe, è molto diversa, nel senso che la cultura è sostenuta e incoraggiata. Non è, come in Italia, l’ultimo dei pensieri, sotterrata, nascosta ai pensieri della politica. Questa situazione permette che i libri siano, in generale, più coraggiosi. Ci sono poi alcuni libri tradotti di recente che ho trovato davvero interessanti, libri emozionanti, che magari raccontano luoghi lontani, anche se la distanza al giorno d’oggi è una categoria molto vaga e ormai è tutto vicino. Penso a Cacciatori nel buio di Lawrence Osborne (Adelphi), ai racconti de I rifugiati di Viet Thanh Nguyen (Neri Pozza), a Il settimo giorno di Yu Hua (Feltrinelli). Difficilmente leggo libri italiani contemporanei di questo valore. Naturalmente il discorso non va generalizzato o semplificato».
Ci sono delle eccezioni?
«Naturalmente. Ho apprezzato Com’è trascorsa la notte di Filippo Tuena (Il Saggiatore), un testo che non so se si possa definire romanzo, visto che è una forma che Tuena scardina. È molto interessante il lavoro che fa sulla lingua Omar Di Monopoli nel suo Nella perfida terra di Dio (Adelphi). Se c’è qualcosa di davvero diverso dalla solita melassa sentimentale penso a Morfisa o l’acqua che dorme di Antonella Cilento (Mondadori) o all’ultimo di Mari…».
Michele o il suo concittadino bustocco Alessandro?
«Michele Mari e il suo Leggenda privata (Einaudi), in cui riesce, anche attraverso un livello altissimo di scrittura, a trasformare una storia familiare in un grande romanzo. Di Alessandro Mari, che ho avuto modo di conoscere, non ho ancora letto l’ultimo Cronaca di lei (Feltrinelli), ma qualche anno fa mi stupì con Troppa umana speranza (Feltrinelli), romanzo che merita attenzione e lettori. Cerco libri così, cerco emozioni nella lingua, nella struttura, nei personaggi. Non posso accontentarmi di qualcosa da leggere stancamente, di sera, per prendere sonno…». (Questo articolo è stato pubblicato in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)
Come darle torto?