Il microcosmo di una città immaginata, Godolphin, racconti pieni ed essenziali, ricchezza di penetrazione del reale e inesauribile impalpabilità ed evocazione del lato nascosto delle cose e dei sentimenti che dovrebbero aiutare a descriverle: ecco, in sintesi, le short stories di “Intima apparenza” scritte da Edith Pearlman, capace come pochi di fondere descrizione e psicologia
I racconti sono una materia del tutto particolare nella vasta materia narrativa. Non è dato sapere a noi profani se Edith Pearlman, come Alice Munro, anche lei donna, coniugata e madre guarda caso, oltre che praticamente coetanea, abbia dovuto sempre disbrigarsi, come ha confessato la stessa premio Nobel canadese fra le faccende familiari, dovendo alternare la scrittura a queste più fondamentali e inderogabili incombenze, giustificando in questo modo la sua predilezione per la forma breve, perché appunto i racconti potevano permetterle al meglio di accudire i figli e sbrigare le faccende domestiche, certo è che l’attenzione al dettaglio, la pienezza, l’essenzialità e la contemporanea sensibilità resa in così brevi forme, quasi si dovesse riuscire a portare a termine qualcosa in così poco spazio e tempo tolto alla quotidianità, possono forse appartenere solo all’animo femminile se è vero che anche nei racconti di Edith Pearlman, così come in quelli della Munro, si trova così tanto di questa speciale dote che sa rendere in poche pagine una pienezza e allo stesso tempo un’essenzialità, una ricchezza di penetrazione del reale e allo stesso un’inesauribile impalpabilità ed evocazione del lato nascosto delle cose e dei sentimenti che dovrebbero aiutare a descriverle. Verrebbe da dire che due sospetti fanno una prova, nel senso della narrazione breve come caratteristica peculiare dello scrivere al femminile, se esiste una cosa di questo tipo.
Godolphin, Massachussets
Edith Pearlman, classe 1936, di origine ebrea, figlia di un medico emigrato da Kiev, già programmatrice di computer, confessa di aver accettato il patto proposto dal marito: lei che si occupa della casa e dei bambini, lui che penserà a mantenere la famiglia, così lei ruberà il tempo disponibile ai suoi giorni da madre e casalinga rintanandosi in cantina e scrivendo nel corso degli anni più di 250 racconti che la porteranno molti anni dopo al riconoscimento tardivo di scrittrice, a ben 70 anni, nel 2012 quando è stata selezionata nella cinquina del National Book Award con un’altra raccolta di racconti, Visione binoculare che l’ha fatta conoscere anche da noi, edita da Bompiani nel 2012. La provincia americana, dalla quale proviene è la stessa che si trova nei racconti di Intima Apparenza (283 pagine, 19 euro), tradotti per Bompiani da Angela Ruggeri, qui rappresentata sotto le mentite spoglie di una città immaginata, quella Godolphin, Massachussets che assume il ruolo di microcosmo come è allo stesso modo la Columbia, Missouri in Stoner di John Williams, o la Holt, Colorado, anch’essa immaginaria, della cosiddetta trilogia della pianura di Kent Haruf.
Personaggi legati da fili inestricabili
Viene quasi la voglia di cercarli sulla mappa quei posti, anche se non esistono, viene la voglia di conoscerli quei personaggi, tantissimi in ogni racconto, quasi come in un romanzo russo, così particolari e universali, legati in qualche modo fra di loro, anche se apparentemente a sé stanti, attraverso fili inestricabili come accade in una città di provincia dove tutti si conoscono. Molti di questi infatti ricorrono nelle singole narrazioni formando un puzzle di questa città sì di provincia ma universale e vicina a tutti noi. La Rennie del negozio “Non ti scordar di Me”, che troviamo in Puck, racconto centrato su una statua folletto in un negozio antiquario, la quale come una madeleine proustiana riesce a rievocare una lontana storia di amore, negozio dal nome esemplificativo che fa capolino più volte, come la sua proprietaria che sembra assumere il ruolo di coscienza morale della comunità della piccola cittadina con la main street, l‘emporio, il drugstore e dove tutti si conoscono intrecciando le loro storie e i loro pettegolezzi. O ancora il collegio femminile che troviamo nel racconto Benedetto Harry dove vi insegna il protagonista, vittima di un falso invito per tenere una conferenza dal pretenzioso argomento in Inghilterra, e che ritroviamo ancora nel bellissimo Melata, dal nome che indica la secrezione zuccherina lasciata dagli insetti, il racconto di una ragazza con un disturbo alimentare che studia insetti e formiche, racconto che chiude la raccolta, Honeydrew, il titolo inglese che è anche il titolo dell’intera raccolta nella versione originale.
Dialoghi serrati e ampia gamma timbrica
Insomma i singoli racconti di Pearlman sembrano andare a comporre questo quadro lanciando sul proscenio una piccola città della provincia americana, una cittadina mondo, ricettacolo e microcosmo di tutte le passioni delle creature che la abitano, creature spesso segnate dall’ansia, dal desiderio e dal senso dell’attesa come la Sallyann di Hat trick dove viene rievocato un vecchio gioco che la madre faceva alla figlia e alle sue amiche di gioventù in una sorta ruota del destino che loro non riuscivano a non prendere sul serio. La grande cura e attenzione all’ascolto è il pregio di una grande narratrice che con grande delicatezza ed eleganza, senza intervenire o imporre il suo giudizio sui fatti osservati si limita a registrarli con una speciale sensibilità e attenzione al dettaglio, anche esplicitata nell’utilizzo di un linguaggio specialistico mutuato dalla biologia, dalla botanica e dalla medicina, linguaggio mai esibito e funzionale allo straniamento visionario dei dialoghi, sempre serrati, schietti ed evocativi o semplicemente dall’acutezza di sguardo che sa cogliere la piega di una veste, un’espressione, un connotato psicologico apparentemente impercettibile a occhio umano, l’estrema cura alla connotazione dei personaggi, indagati al microscopio dalla sua affilata penna e che si dilatano nella mente del lettore, tutti aspetti che rendono Edith Pearlman in un certo modo una scrittrice ottocentesca, capace di fondere psicologia e descrizione, con la sua ampia gamma timbrica che vira dal realista al visionario, con poche pagine che aprono squarci immensi, con una voce composta, mai urlata ma che va nel profondo e che fa del piccolo spazio di un racconto già un mondo “quella favolosa apertura dal piccolo verso il grande, come il seme in cui sta dormendo l’albero gigantesco” potremmo dire citando Julio Cortázar, un altro che di racconti ne ha scritti di indimenticabili, ognuno e a suo modo nel caso di Intima apparenza già un piccolo romanzo, qualitativamente per la densità e la ricchezza dei contenuti, quantitativamente per i personaggi, le loro passioni e triangolazioni, fra storie d’amore, adulteri, legami familiari e relative gioie e sofferenze.
Ecco allora la Paige del racconto iniziale Tenderfoot, quasi una controfigura della scrittrice, la pedicure dell’istituto di bellezza che sa ascoltare tutte le sue clienti e ciò che ruota loro attorno, ecco che un piccolo dettaglio come un bottone su un cappotto, rimembranza di storie familiari, ricompone il tutto in “Benedetto Harry”. O ancora la fosca ironia di Liberazione dove la nuova metodologia di cura in un centro per la salute mentale consisterà nell’avere molti animali a disposizione, fino ai più sorprendenti effetti della curiosità di una ricca adolescente in crociera che scopre un neonato clandestino nella stiva della nave, come l’incontro di due mondi.
Un baricentro emozionale
In ogni racconto c’è un significato non immediato che va oltre la mera testualità e stimola nuove riflessioni e inesauribili riletture che sono il miracolo della letteratura, il non detto, che spesso scaturisce dall’irrompere di situazioni non calcolate, imprevisti che fanno la comparsa nel bel mezzo di una apparente linearità e scopriremo sempre troppo fragile armonia, l’assurdo, l’ironia e la crudeltà che si cela in tutte le cose che crea un baricentro emozionale lasciando il lettore assorto su quello che rimane fuori dal quadro e pur tuttavia lo sconquassa, lo emoziona, facendolo inabissare in cunicoli di sentimenti mentre tutto il resto rimane conoscenza superficiale, una normalità increspata di segreti, come cercare verità che mai gli occhi riusciranno a vedere e delle quali pur si intuisce la presenza.
Una visione del mondo altra
Forse Piscataqua è, in tal senso, il vero racconto manifesto della raccolta del quale già si intuisce il tenore dall’epigrafe di apertura, citazione di tale Visconte Bolinbroke: “La verità giace in un chiaro e piccolo campo” che fa un po’ il pari con la nota in quarta di copertina: “La verità non ha niente a che fare con la testimonianza degli occhi” come ci viene detto nel finale dell’altro racconto emblema, quell’Aspetta e vedrai che narra di un ragazzo adottato, affetto da una disfunzione visiva che gli fa vedere, anzi stravedere, in questo caso una moltitudine di colori dove tutti invece vedono quelli comunemente riconosciuti. Quasi a dirci che la letteratura ci dovrebbe rendere una visione del mondo altra, lasciando sempre qualcosa di sospeso e inespresso, in alcuni casi taciuto o solo evocato, come la passione inconfessata in Pietra o ciò che nasconde la triste storia di un ragazzo malato narrata in Sonny.
Edith Pearlman, la narratrice delle sfumature di colore e delle vibrazioni di tono, della luce e dell’ombra, cose che questi racconti profondono a pieno, una penetrazione più profonda della realtà di quella comunemente spacciata dalla scienza e dai suo falsi miti, dalla propaganda giornalistica quotidiana o dalla stessa storia di cui parla proprio il racconto Piscataqua dove un’autrice di narrativa storiografica si trova a postulare con sommo sdegno del suo editore la scoperta dell’America 2000 anni prima della data comunemente accettata, per effetto di ricerche mescolate alla sua inventiva, seppur documentata storiograficamente, tanto da renderla credibile e spostando la storia stessa nel campo della letteratura e della sua sospensione dell’incredulità.
Infine una notazione personale, sui racconti come genere narrativo e sui suoi vantaggi, beninteso quando ci imbattiamo in raccolte come questa: uno se li può segnare, per poterseli poi rileggere, cosa che per esempio non si fa con i romanzi. Se allo stesso modo di chi li scrive, come ha confessato la Munro, e chissà se per Edith Pearlman non sia stato lo stesso, i racconti possano obbedire a esigenze pratiche di tempo da tener libero per altre occupazioni, così può essere per il lettore che può saziare la propria famelica voglia di letteratura in una lettura e storia compiuta alla volta la quale può impegnare in una sola seduta non più di venti minuti o mezz’ora. Certo poi proseguiremo, ne potremo leggere uno ancora perché come in una scatola di cioccolatini, uno tira l’altro, li potremo soprattutto rileggere, anche più o meno velocemente, avendo segnato magari con una crocetta dalla volta precedente quelli che più abbiamo amato e sui quali dovremo necessariamente ritornare, come a me capita di fare, come ho fatto anche con Intima apparenza accorgendomi alla fine che ogni singolo racconto aveva una crocetta a lato del titolo e prima di iniziare a rileggermeli tutti.