Intenso romanzo di formazione è “Il suono della vita” del tedesco Ortheil. Condizionato fin dall’infanzia dai dolori della madre, il protagonista Joahnnes si emancipa dal mutismo e dalla solitudine attraverso la musica, la natura e la scrittura. E attraverso un doppio approdo in Italia…
Hanns-Josef Ortheil, scrittore, pianista e professore di scrittura creativa e giornalismo culturale presso l’Università di Hildesheim, da molti anni è considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura tedesca contemporanea. Un autore molto amato, tanto che i suoi romanzi sono tradotti in più di venti lingue. Vincitore di tantissimi premi, la sua scrittura, forte e delicata allo stesso tempo, fa vibrare le corde più intime dell’anima di ogni lettore come solo sa fare chi racconta la fragilità degli altri con delicatezza. Nel suo ultimo libro, Il suono della vita (540 pagine, 19 euro), pubblicato da Keller Editore, nella traduzione dal tedesco di Scilla Forti, Ortheil ripercorre la sua storia autobiografica, le fragilità e il dolore che lo hanno accompagnato, attraverso il racconto della vita di Johannes, un bambino che non parla, pur non essendo muto, perché travolto dal dolore di una madre che ha rifiutato le parole, dopo la morte di quattro figli durante la Seconda guerra mondiale.
Un amore materno che è latte senza miele
L’amore materno, il più sacro dei vincoli affettivi, trova la sua massima espressione nel simbolismo della terra promessa, descritta nella Bibbia come “traboccante di latte e di miele”. Il latte è il simbolo delle cure e dell’affetto, il primo aspetto dell’amore di una madre; il miele rappresenta, invece, l’amore per la vita che si infonde nel bambino, la felicità di sentirsi vivi. Johannes è un bambino che ha ricevuto dalla madre il latte, ma non il miele: nei primi anni dell’infanzia deve fare a meno dell’amore per la vita e del desiderio di essere vivo perché il dolore della madre, per un trascorso tragico, lo travolge, lo annienta. Rinchiuso nello stesso mutismo della madre, tanto che è impossibile parlare del suo senza tirare in ballo quello del genitore (“l’uno non esisteva senza l’altro”), trascorrere l’infanzia tra le mura di una casa, a Colonia, mantenendo le distanze dagli altri bambini e riducendo i contatti con l’esterno allo stretto necessario. Capisce di essere un bambino diverso dagli altri, ma “mia madre ovviamente non doveva accorgersi di quanto tutto ciò mi avesse colpito e ferito”, dice l’io narrante. Un amore reciprocamente vissuto come una simbiosi, difesa e protetta con le unghie e con i denti.
«Odio la parola “regressivo”, è una parola con cui pretendono di allontanare da me determinati desideri e immagini, è una parola dura, tagliente, beffarda e inanimata, è una delle parole che utilizzano volentieri tutti coloro che non vogliono concedermi di essere come sono, o che non fanno il minimo sforzo per capire perché sono come sono».
La musica, l’ancora di salvezza
Durante le messe della domenica, nel Duomo di Colonia, Johannes impara ad ascoltare la musica “più pura, una musica corale senza accompagnamento, spesso all’unisono”, talmente celestiale da riempire il suo corpo infantile, come se “l’onnipotente Dio la installasse affinché tutti i dispiaceri e le preoccupazioni venissero dimenticati almeno per la durata della messa”. Ma l’ancora di salvezza gli viene lanciata, all’improvviso e senza alcuna pianificazione, dallo zio, quando nella casa-rifugio arriva un pianoforte. Dal primo istante della sua apparizione nell’appartamento, “il bambino senza parole” sente una connessione particolare con il pianoforte e con la delicatezza della madre che lo suona per la prima volta, con una musica che lo avvolge come un turbine, con un canto che gli parla di gioia e libertà e gli fa dimenticare tutta la sofferenza. Seduto sullo sgabello, con le dita che volteggiano e danzano sui tasti bianchi e neri del pianoforte, per Johannes arriva l’istante che ha decretato l’intero andamento della sua vita da lì in poi. Le note musicali sostituiscono le parole e raccontano ciò di cui non può e non sa parlare: del suo dolore, della sofferenza, del suo mondo interiore. Suonare equivale alla liberazione, alla possibilità di sopperire all’assenza di parole e esprimersi con l’aiuto dei suoni.
«Quella musica mi apparve d’istinto come una via di fuga verso l’esterno e verso quel mondo più bello, del quale finora mi ero fatto soltanto una vaga idea durante le messe».
La natura, la chiave giusta per tornare a parlare
Ma la musica non lo riporta a parlare. Il legame con la madre è ancora troppo forte, lo imprigiona in quel mondo fatto di silenzio. Solo nelle parole di un padre amorevole è nascosta la chiave giusta per liberarlo dalle catene, una chiave che apre la serratura di quel piccolo scrigno che è la mente del bambino, dove albergano simboli segreti e che tratta tutto ciò che gli viene propinato come materiale musicale. In campagna, dove il padre lo conduce per “guarirlo” dal troppo amore materno, impara a diventare grande osservando il mondo, disegnandolo e descrivendolo, non più solo con l’aiuto della musica, ma anche della scrittura e della lettura: percepisce immagini e impressioni, le disegna ed assegna a ciascuna un nome. Il contatto con la natura lascia tracce profonde di una appagamento interiore e di una costante felicità e, pian piano, il muro del silenzio si sgretola e Johannes impara a parlare: quel suo silenzio, che apparteneva al suo mondo, che lo faceva sentire protetto, il suo amato padre lo apre con una delicatezza leggera come un soffio di vento, delicata come una piuma, che lo avvolge, lo sfiora, lo abbraccia e lo schiude come un bozzolo. Poco alla volta, Johannes ricostruisce “il programma segreto del mio cervello, fino ad allora rimasto invisibile a tutti gli altri”, dove conserva tutte le note che ha suonato e ricorda perfettamente: nasce il sistema “osservazione-disegno- scrittura” che getterà le basi per l’uso del linguaggio.
«L’intero brano si dispiega nella mia testa quando lo richiamo alla mente: come se lo stessi suonando in quel momento, come se ce l’avessi stampato sotto gli occhi».
L’amore per la scrittura
Attraverso una scrittura di un lirismo intenso, Ortheil ripercorre la propria vita, dall’infanzia fino all’età adulta, alternando sapientemente la narrazione tra presente e passato. Il “suono della vita” lo porta fino a Roma, per ben due volte e in fasi diverse dell’esistenza, ma gli scopi che lo conducono nella Città Eterna sono diversi e vanno scoperti leggendo il romanzo, pagina dopo pagine. Oltre la musica, che gli farà anche conoscere il significato della parola fallimento, una nuova grande passione lo accompagna nel lungo viaggio, quella per la scrittura, che lo conduce a ripercorrere la propria giovinezza, come un atto catartico, un gesto liberatorio (“Se non mi ci dedicavo tutti i giorni, diventavo irrequieto, era come se le parole, le frasi e le espressioni si ammassassero nella mia testa e dato che non avevo più alcun metodo per memorizzarle, proliferavano senza sosta, come piante selvatiche”). Grazie alla scrittura e agli eventi che vive a Roma, da adulto, abbandona al margine del sentiero della sua vita tutti i pesi giganteschi dell’infanzia, che fino a quel momento si è trascinato dietro, liberandosi dal dolore e dallo smarrimento.
Il suono della vita di Ortheil è un romanzo sui sentimenti, sulla forza della musica e della scrittura, sulla delicatezza delle anime più pure che, come iceberg nascosti per metà sott’acqua, aspettano di riemerge e conquistare il proprio posto nel mondo. Il piccolo Johannes per molto tempo resta nascosto a metà nell’aria, ma riesce a scacciare quel bambino solitario, muto e ritardato, per diventare un ragazzino come tutti gli altri, con una sete di sapere che non poteva più essere domata dopo anni di repressione, e un adulto che scopre il sapore del miele, l’amore per la vita e la felicità di sentirsi vivi.