Un magistrato che torna in Sicilia, dopo aver appreso di un grave lutto. Questa è la scintilla di “Risa”, secondo romanzo del costituzionalista, dalla forte connotazione stilistica: una storia di ricordi e d’amore, la ricerca di una città leggendaria
Michele Ainis, costituzionalista, editorialista, saggista, è tornato in libreria vestendo per la seconda volta i panni di romanziere con Risa (153 pagine, 16 euro), edito da La Nave di Teseo.
Protagonista della storia è il siciliano Diego, che ha “scelto per sé il mestiere di giudice” in una procura della provincia Padana. Ainis ce lo fa incontrare, per la prima volta, proprio in quell’angolo della penisola dove si è rifugiato per una sorta di autoimposto confino. Tra le mani una lettera, proveniente dal sud, ad annunciargli un grave lutto. La missiva “che gli procura suo malgrado un soprassalto, una fitta dolorosa come una puntura di vespa”, è l’occasione concessa a quell’”uomo metodico, con la fissa dell’ordine sia nelle cose che nei sentimenti”, per scompaginare la propria rigida esistenza e rientrare nella nativa Messina. L’epistola è, dunque, il pretesto che dà avvio alla vicenda.
Un ritorno, sparizioni e ricerche
In Sicilia, da cui è assente dal giorno dei funerali della madre, per Diego cominciano sorprese e misteri. Scompaiono dinanzi ai suoi occhi interi scenari cittadini. Scompare nel nulla il fratello Jacopo, sacerdote recentemente votatosi ad una esistenza scandalosa. Scompare, lasciando come unica traccia l’auto abbandonata, Tano, il vicedirettore della biblioteca regionale, consultato dal nostro per dipanare le matasse delle precedenti sparizioni. Gli eventi costringono Diego a frenetiche ricerche: di Jacopo, della Messina che gli si sgretola sotto i piedi, di Risa, la città leggendaria nascosta nei fondali del Lago di Faro. Infine gli sembrerà di essere alla ricerca anche di sé stesso.
Lettura centellinata e urgente
A dispetto della trama lineare, riassumibile nella serie di dileguamenti di cui si è detto, e del numero contenuto di pagine, Risa è un romanzo corposo, da leggersi – prendo a prestito le parole dell’autore – “un po’ alla volta e poi tutto d’un fiato”. Vanno centellinate, in virtù della loro piacevolezza, le pagine dedicate ai miti messinesi, riportate dall’autore con uno slancio che riverbera, per intensità e passione, lo spirito delle “Storie e leggende napoletane” di Benedetto Croce. Del pari necessita lentezza, “la storia di Risa” che, come ammonisce Ainis, “ti lascia senza fiato, a prenderla sul serio”.
C’è, di contro, una parte della narrazione che esige un ritmo di lettura urgente. Si tratta delle pagine, quasi oniriche, in cui Diego è in balia di una “giostra che gira all’impazzata”, straniato, trasferito in un altrove che avverte alieno e al contempo familiare”, di una città che “non lo riconosce, gli nega l’intelligenza dei suoi processi intestini, il calendario degli eventi, la trama dei fatti che accadono”. Il lettore, trascinato al suo fianco, è qui incalzato ad affrettarsi in cerca di una soluzione, per verificare che “vi sia un senso compiuto”, lo stesso in cui spera Diego, “anche se non ne è affatto sicuro”.
Uno stile di fortissima personalità
Al di là dei contenuti suggestivi, colpisce la forte connotazione stilistica di Risa, vera cifra del romanzo. La scrittura di Ainis si caratterizza, infatti, lungi da sospetti di ostentazione, per la sua fortissima personalità. L’autore si è assunto, consapevolmente e con ogni evidenza, il rischio di andare controcorrente, di utilizzare una lingua e una forma lontane dalle mode minimaliste imposte da certe scuole di scrittura. Il valore aggiunto di Risa sta, per la gran parte, nell’utilizzo puntuale della parola, fatto di scelte lessicali ben ponderate ma mai manieristiche, e nella costruzione rigorosa del periodo, che con naturalezza indulge al poetico, neutralizzando brillantemente il rischio di scadere in prosa legnosa.
Che libro è, infine, Risa? “È un libro davvero singolare” – ci aiuta a dire lo stesso protagonista, al quale abbiamo rubato questo giudizio – Perché tratta d’eventi fantasiosi come fossero reali“. È una bella storia siciliana, di ricordi e d’amore. È semplicemente la storia della leggendaria Risa, che come l’Atlantide di Aristotele, rimane solo “un sogno: sicché l’uomo che l’ha sognata, l’ha anche fatta scomparire”.