“Cuori cicatrizzati” del romeno Max Blecher è un romanzo autobiografico: un giovane uomo, segnato dalla tubercolosi alla spina dorsale, la sua permanenza in sanatorio insieme agli altri ospiti, la vita che continua a irrompere fino alla fine, in attesa della fine
Il cerchio è chiuso, l’attesa pienamente ripagata, un inconfondibile mondo letterario ha avuto il suo pieno riscatto, non è stato inghiottito dal tempo. Quel fiore nel deserto che era Accadimenti nella realtà immediata di Max Blecher, morto nemmeno trentenne nel 1938, è adesso affiancato da Cuori cicatrizzati (237 pagine, 15,50 euro) sempre per la cura e la traduzione di Bruno Mazzoni, docente di romeno a Pisa, ancora per i tipi della raffinata casa editrice Keller. Secondo romanzo di Blecher (con una copertina fantastica, nell’edizione italiana), testamento di un’esistenza brevissima, segnata dalla tubercolosi alla spina dorsale, che lo costrinse a molti ricoveri in sanatorio e a una permanenza forzata a letto, negli ultimissimi anni vissuti a casa. Di famiglia ebraica, aspirante medico e scrittore, ha lasciato solo questi due romanzi che però lo pongono in posizione di prima grandezza fra gli autori del primo Novecento.
Tono autentico, disperato e poetico
Blecher, che Ionesco definì il Kafka di Romania e che per taluni ha anticipato certe istanze “esistenzialiste” di Sartre e Camus,con Cuori cicatrizzati scrive un romanzo autobiografico, meno onirico e filosofico del precedente, anche se pubblicato appena un anno dopo, nel 1937: Emanuel, studente di chimica, protagonista e alter ego dell’autore, soffre per la stessa malattia e racconta il proprio dolore dall’interno del sanatorio di Berck-sur-mer («Chi ha vissuto qui non si ritrova da nessun’altra parte»), nella Francia settentrionale, di fronte all’Oceano. La narrazione è precisa, realistica, ma anche grottesca, il ritmo potente e vertiginoso, giocoforza autentico il tono, disperato e poetico, tra desiderio di vivere e dolore, in attesa di una morte che appare certa: avere cuori cicatrizzati significa, però, essere in qualche modo invulnerabili.
Scrive in terza persona, Blecher, ma trasmette compiutamente il senso della propria esistenza breve e infelice, del vivere senza vita, del dissolversi, certa claustrofobia del corpo e della mente: condizioni che, declinate appena diversamente, riguardano tutti gli ospiti del sanatorio, Cora, Roger, Zeta, Isa, il signor Quitonce. Cambia la visione del mondo di Emanuel, la prospettiva è un’altra e non perché sia ingessato dal collo all’anca e costretto a stare disteso per sempre. Il suo romanzo – nel quale la storia e l’epoca coeva quasi non si intravedono – ha attraversato i decenni prima di essere compiutamente riconosciuto, soprattutto in patria, dove solo da alcuni anni è considerato pienamente un classico imprescindibile. Un destino scritto, come quello della morte attesa dai pazienti del sanatorio tra brevi conforti, perché l’amore (o la parvenza dell’amore, che per Emanuel si chiama Solange) e l’amicizia tornano, continuano a irrompere.