La salvezza per tutti, il non reale che non è necessariamente non vero, l’importanza di un confronto culturale tra mondi diversi: la lezione di uno scrittore, da “Le cronache di Narnia” alle sue opere meno note, manuali di spiritualità pratica, dove grazia e ironia prevalgono anche tra ambientazioni lugubri
Per cominciare bisogna innanzitutto immaginarsi trapiantati in una nebbiosa Oxford dei primi Anni 40, di sera, quando l’aria è afflitta da una pioggerellina continua e persistente, e dove l’unica luce possibile è quella di una lampada accesa che si riflette leggermente su di una vetrata, all’interno di un buon pub. E l’autunnale penombra di un buon pub ha prodotto più miracoli letterari di tanti presunti lumi.
La confraternita degli Inklings
Lì, seduti ad un poroso tavolo di legno che è già un racconto di per sé, bisogna sforzarsi di immaginare un gruppetto di amici, che non si trovano lì solo per gustare una buona birra (il che è già qualcosa di assolutamente serio), ma per far sì che la fermentazione di quella bevanda continui nei loro animi, e attraverso la loro fantasia, fino a produrre qualcosa di ancora più buono.
E cosa c’è di più buono della birra? Ciò per cui la si beve insieme.
Mi riferisco alla confraternita degli Inklings, e in particolare ad alcuni suoi membri: il prolifico John Ronald Tolkien (c’è bisogno di presentazioni?…), l’esoterico Charles Williams, e soprattutto colui al quale dedico queste righe, il ribelle Clive Staples Lewis.
L’anima che rapisce Dio
Conoscete la storia di Ganimede? Giovane pastorello la cui bellezza costrinse Zeus, padre degli dei, a mutarsi in aquila per rapirlo e portarselo sull’Olimpo. Antico mito che sottolineava l’irresistibilità della giovinezza, che non può starsene troppo lontana dall’onnipotenza, al punto che prima o poi quest’ultima la reclama tutta per sé, in un incontrollato desiderio di farsene identica carne! Con l’unica differenza che, nel cosmo di un giovane poeta o scrittore, avviene esattamente il contrario: è l’anima che si trasforma in un’aquila, e rapisce Dio. E se lo porta nel nido delle idee, perché ogni creazione della mente diventi arte e goda delle precise caratteristiche della divinità: l’assumere molte forme e il non morire mai.
Nulla di strano, dunque, che quella confraternita di narratori si riunisse al The Eagle and Child Pub… Un nome che era già tutto un programma, e che ci permette ancora oggi di stupirci di quanto i luoghi amino giocare con gli attimi, nei misteriosi incroci di quel confuso ed imprevedibile spaziotempo che chiamiamo Storia.
Così, anno dopo anno, l’Olimpo lo riscopriamo tra le righe di certi libri che purtroppo, ogni volta, finiscono col diventare famosi solo dopo che una provvidenziale “ancelluloide” li ha condotti alla presenza di un ignaro pubblico.
Un leone e un malloppone
Le Cronache di Narnia. E tutti pensano a un leone. E potrebbe anche andar bene, perché in fondo è uno dei personaggi chiave, e forse addirittura il più importante. Ma non sarebbe più bello che quel titolo ci facesse subito pensare al brivido tutto cinestetico di sentire nella propria mano, anche solo col potere dell’immaginazione, il peso di un libro di 1152 pagine? Almeno se uno ha presente il malloppone Mondadori del 2005, che racchiude l’intera saga. Sarebbe decisamente più entusiasmante portare nella memoria il ricordo di quei sette titoli poi diventati uno solo, soffermandosi sul dove e sul quando li si è sfogliati uno ad uno, partecipando forse, insieme all’Autore, della sorpresa di scoprirli legati più dalla necessità “di dover raccontare” che non da quella di dover confezionare a tutti i costi una saga.
Sì, ricordo anche io la stessa impressione.
Non avevo la sensazione che il secondo titolo dovesse necessariamente seguire il primo, e il terzo il secondo, e così via. Ovviamente tutto era legato all’interno di quell’unica storia fantastica (oggi si dice fantasy), ma ognuno di quei sette libri era una storia a sé.
Leggendo ciò che lo stesso Lewis scrisse a proposito della sua più importante opera, scoprii che neanche lui ebbe fin dall’inizio l’idea di una saga, e che ogni volta che scriveva un seguito “pensava che fosse l’ultimo”… Il numero sette gli ha finalmente dato ragione. Lì la storia si è conclusa… o è cominciata?
Narnia, non solo una griglia fantastica
Di cosa parla Le Cronache di Narnia? Di cosa intende parlarci Lewis? O meglio… Di cosa lo sentiamo parlare, mentre lui racconta? Le tre domande presuppongono almeno tre retroterra: cosa c’è dietro un racconto fantastico propriamente detto; cosa c’è dietro Lewis; cosa c’è dietro di noi. Leggere quel libro significa mettere insieme questi tre universi di riferimento, e scoprire gli effetti di questa alchimia. Più elementi comuni ci sono tra lui e noi, e più ci è possibile “mappare” quel testo, e scoprirne la struttura invisibile, che non è solo la griglia fantastica su cui egli ha poi innestato ogni singola storia.
C’è molto di più…
Gli amanti del genere rimangono talvolta un po’ disorientati dal libro, perché questo “di più” viene fuori quasi come quegli indizi trasparenti di cui un buon investigatore si accorge solo alla fine della sua indagine, pur avendoli avuti sotto gli occhi per tutto il tempo, esclamando poi il classico: “Ma certo! Come ho fatto a non pensarci prima?!”.
Lettori incipienti, progredienti, perfetti
Allo stesso modo, leggere il Lewis de Le Cronache di Narnia significa, quanto meno, rendersi conto che ci sono un mucchio di particolari decisamente non funzionali al racconto. Non “necessariamente” funzionali alla narrazione nuda e cruda della storia. Tutta una serie di “corpuscoli letterari” che vanno in giro per quelle pagine come cellule dentro il plasma, senza che ci si accorga ad un primo sguardo quale possa essere la loro precisa funzione narrativa. Il lettore “incipiente” non se ne accorge: legge il racconto così com’è scritto, manda giù ogni cosa e si diverte a prescindere. Buon per lui. Invidio questo approccio tenero e candido. Il lettore “progrediente”, che di libri così ne ha letti parecchi (e magari ha appena finito di leggere Il Signore degli Anelli), comincia per forza di cose a mettere i vari testi in una sorta di sinossi retroletteraria, cercando di scoprire se quei “corpuscoli”, se quei “segni” sono presenti anche in altri racconti fantastici, o sono una caratteristica precisa di quell’autore. Poi ci sono i lettori “perfetti”, che prendono il microscopio e guardano a quelle tracce sparse con curiosità bioesegetica, ricavandone prima o poi il DNA. Questa scoperta coincide con una sorta di “unione mistica” tra il lettore e l’autore.
Scandalo! Lo scandalo di doversi catalogare per forza, mentre si legge, in una di quelle suddette categorie, messe lì non a caso: incipienti, progredienti e perfetti. Categorie che, nella loro originaria funzione, non avevano certo il fine di etichettare l’universo dei lettori… Non quelli della narrativa propriamente detta.
Lettura e crescita spirituale
I tre aggettivi sono un’invenzione concettuale di San Bonaventura, che si rifà a sua volta ad Origene, antico studioso alessandrino di Sacre Scritture, che applicò alla Bibbia il metodo dell’esegesi allegorica già prima di lui utilizzato dall’ebreo Filone, anche lui di Alessandria.
In sostanza, l’antico Esegeta (profeta inconsapevole di un ben più moderno Strutturalismo), sosteneva che la lettura del testo biblico cammina di pari passo con la crescita spirituale di chi legge. Così, coloro che “iniziano un cammino” (incipientes) si fermeranno al solo senso letterale di un testo, e questo in ogni caso li farà crescere. Coloro che nel cammino sono già a buon punto (progredientes) intravedranno all’interno del testo dei richiami allegorici a realtà ben superiori a quelle letteralmente descritte; richiami allegorici paralleli al testo, e non in contraddizione con esso. Infine, coloro che nel cammino hanno raggiunto un certo grado di perfezione (perfecti), ricaveranno dal testo quel “senso vero e recondito” che li porterà ad unirsi con il “lógos” del testo stesso, ovvero la sua essenza più profonda e vitale, la sua causa prima e il suo fine.
Senso letterale, allegorico e analogico
Origene parlava della Bibbia, certo… Ma chi potrebbe negare che questo approccio, questo avanzare dal senso letterale a quello allegorico, e da quest’ultimo al senso analogico, non coinvolga più o meno qualunque lettore e qualunque buon testo? Alcuni autori potrebbero essere letti migliaia di volte, e in ognuna di esse noi potremmo scoprirvi cose nuove, nuovi sentieri di senso, nuovi orizzonti di comprensione!
Mi pare che, nel tredicesimo secolo, un autore fiorentino scrisse un poema di questo tipo dove, incastrati tra le concatenazioni degli endecasillabi, tutto poteva essere letto nei tre sensi suddetti… E se non sbaglio, anche nel ventesimo secolo, un altro autore, esperto di semiotica, si divertì a scrivere un romanzo che poteva essere letto in molti, molti modi diversi…
E qui si parla di autori che con questo meccanismo c’hanno “giocato” (forse più il secondo che il primo…), utilizzando sapientemente gli strumenti della poesia e della narrativa così da creare rapporti invisibili eppure “strutturanti” l’intera opera: proprio come quei corpuscoli di cui sopra. Si parla quindi di una letteratura “volutamente” strutturata su più livelli. Ma c’è una regola aurea, non sempre conosciuta, che ingloba autori e lettori, e che ci ricorda una verità indiscutibile: qualunque opera si autotrascende sempre, oltrepassando sempre i limiti entro cui è stata scritta. Ciò, se è vero già a livello di intenzioni, è verissimo soprattutto quando si parla di emozioni. Un’opera produce sempre un orizzonte ben più grande e inaspettato di quello che il suo autore riusciva a vedere, o che un lettore pensava di voler esplorare. Quindi, il minimo che possa accadere quando si legge (Lewis o chiunque altro) è che si passi necessariamente dal senso letterale a qualche quadro ermeneutico superiore. Fondamentalmente, coloro che hanno assaporato questi passaggi sono poi quelli che rileggono un testo anche molte volte, e che ogni volta si convincono di averlo letto per la prima volta. Un’opera letteraria produce questo tipo di endorfine, come la cioccolata…
L’opera letteraria, un organismo vivente
Pocanzi si accennava allo strutturalismo, sottintendendo l’importantissimo studio di quelle relazioni tra i segni ed il tutto, tra la struttura che regge e che costituisce un corpo (e quindi le ossa, gli organi, gli apparati, e così via…) e il corpo stesso, con tutta la sua vita e la sua propria bellezza.
Passando dalla Linguistica alla Letteratura, e da De Saussure a tutti coloro che sono venuti dopo di lui, non sembra che nessuno abbia mai affermato che un testo, per quanto lo si osservi nei suoi elementi costitutivi, potrà mai essere oggetto di un’analisi autoptica, dato che si parla di qualcosa di “vivo”: per quanto i suoi elementi strutturali siano degni di indagine, e determinino in modo apparentemente meccanico la risoluzione letteraria finale, un testo non potrà che essere letto nel suo insieme. Insomma, il tutto è sempre maggiore della somma delle sue parti, soprattutto se è un “tutto” che partecipa di vita propria. E questo è predicabile tanto di un organismo vivente quanto, siamo d’accordo, di un’opera letteraria.
Anche a chi non frequenta una sacrestia…
In Lewis, e qui scendiamo nello specifico, appare chiara ad un occhio sufficientemente attento l’intenzione di costruire una storia a partire da elementi riconducibili al “sacro”.
Il Leone Aslan, figlio dell’Imperatore che vive al di là del grande mare, dopo aver offerto la sua vita in sacrificio per riscattare colui dal quale è stato tradito, risorge e va a liberare i prigionieri della strega malvagia, impietriti in una morsa di ghiaccio perenne. Il Leone alita su di essi, e il calore del suo Soffio li riconsegna alla vita. Poi, con lui in testa, vanno tutti a combattere la battaglia finale, dove finalmente la strega viene distrutta.
Il riferimento è abbastanza chiaro, direi. Anche a chi non frequenta una sacrestia. Tuttavia, per coloro che non lo cogliessero, la storia avrebbe comunque una linea narrativa autosufficiente: non è necessario che sia esistito Gesù Cristo, o che si creda in Lui, perché il Leone Aslan compia tutto ciò che è raccontato da Lewis. Tuttavia, Lewis ha evidentemente presupposto Gesù Cristo.
Ma non è questo che si intende come elemento “sacro” del racconto. Quando dico che “c’è del sacro in Lewis”, non mi riferisco al fatto che da quelle pagine un lettore possa intravedere l’immagine di Gesù. Non ancora, almeno.
La salvezza è per tutti
Il fatto è che Lewis, a differenza di Tolkien per esempio, ha voluto creare un’opera in cui l’elemento “sacro” non fosse necessariamente riconducibile ad un’intellegibilità di tipo fideistico; ha scritto una storia in cui quello stesso “sacro” a cui lui, nella sua personale esperienza storica attribuisce un Nome preciso, poteva avere un altro Nome in un’altra realtà possibile, ancorché fantastica. Lewis ha preso l’essenza e la struttura salvifica del Bene, contenute nel Cristo in cui credeva lui, e le ha trapiantate in un’altra realtà. Come a dire: “In un’altra realtà le cose potrebbero essere andate in modo storicamente diverso da come le abbiamo vissute noi, perché anche se la storia degli uomini e quella di Narnia si incrociano, Narnia non è la Terra, e la storia dei suoi personaggi non è la nostra. E tuttavia, a prescindere da quale sia il mondo al quale si appartiene, la Salvezza è possibile a tutti. Assume forme diverse dalle nostre, diversi nomi e connotati, ma la sua essenza è identica”.
Fine e stile supposizionale
Insomma, l’inserimento di elementi evidentemente teologici all’interno di questo testo, non aveva un fine catechetico ma, come dice lo stesso Autore, “supposizionale”. Sono elementi che formano una rete di idee nella quale un ipotetico lettore può facilmente riconoscersi, e il riconoscimento che un lettore opera di se stesso, all’interno di un testo, è tutto!
Così, mentre Tolkien racconta una storia in cui volutamente non si parla di Dio, e lo fa per parlare di Dio (usa pienamente e in modo assolutamente consapevole lo strumento allegorico), Lewis opera il procedimento esattamente opposto: inserisce elementi teologici riconoscibilissimi, ma non per parlare di Dio (questo almeno è ciò che dice lui) quanto per creare un retroterra culturale di riconoscimento all’interno del quale i suoi lettori possano sentirsi a proprio agio. Ma conosce bene anche il procedimento dell’amico Tolkien, ed anche lui scrive qualcosa di allegorico. Dunque, chi s’è letto Narnia, procuri di far suoi anche i tre libri della “Trilogia dello Spazio”; in questo modo sarà possibile capire meglio la differenza tra lo stile allegorico e quello supposizionale.
Per certi “regni” bisogna farsi bambini
Lewis, pur avendo scritto per tutti, prediligeva un pubblico in età verde. E quando qualcuno gli diceva, forse col desiderio di punzecchiarlo un po’, che lui desiderava scrivere soprattutto per i più piccoli, egli rispondeva che se un libro piace ai bambini andrà benissimo anche per i grandi. Beh, in effetti… “chi non sapesse farsi nuovo come un bambino, nella novità del cuore e della vita”, come potrebbe mai essere un buon lettore? Non riesco ad immaginare un dotto professore, o un antico e sapiente cultore di Letteratura che, entrando in una qualunque libreria o biblioteca, non sperimenti il brivido tutto bambinesco di scoprire i colori delle copertine, o di percepire come pura musica il fruscio delle pagine, o di sentirne l’odore ancora acre e immacolato, eccetera eccetera… In questo, non c’è incipiente, progrediente o perfetto che tenga: la bellezza di un libro, e il desiderio di farlo nostro, o di portarlo con noi dopo averlo letto, ci accomuna tutti per forza. E anche per fortuna! L’universo dei lettori è un microcosmo di quello umano: siamo tutti uguali, tutti partecipi di una necessità realizzativa.
E sì, per certi “regni” bisogna per forza farsi bambini, fosse il Regno di Narnia, o il Regno di Dio, o il vastissimo regno di tutti i libri possibili e immaginabili… Ma senza bisogno di andare molto lontano, o di varcare lontanissimi confini, possiamo tranquillamente continuare a passeggiare nel “giardino incantato” di questo autore mezzo inglese e mezzo irlandese (il che lo rende simile ad uno dei suoi irreali personaggi…), e goderci qualche altro suo titolo, e ce ne sono diversi che stuzzicherebbero palati impensabili e che, mi permetto un giudizio temerario, potrebbero persino essere considerati superiori ai sette libri di Narnia, perché permettono di scoprire un Lewis a tutto tondo, dove certi suoi temi portanti emergono in modo dirompente, e senza la preoccupazione di dover essere accolti ogni volta dai soli lettori giovani. E quindi cadono i cristalli e le chiome delle ambientazioni fiabesche, e rimangono solo certi spuntoni di roccia dedicati ad un pubblico di lettori adulti, ai quali certe pagine sono consegnate come una specie di viatico, o come manuali di spiritualità pratica dove però – e sovrabbonda la grazia – l’ironia la fa da padrona e, pur rimanendo scossi da certe questioni e da certe atmosfere, alla fine la pillola… va giù.
Il desiderio come mezzo realizzativo, il confronto con gli altri
Mi riferisco a titoli come Il Grande Divorzio, o Le Lettere di Berlicche, o ancora I Quattro Amori, solo per citarne alcuni. Qui siamo lontani dal mondo fantasioso di Aslan e di Caspian, ma l’irreale continua a scorrere sul nastro della macchina da scrivere, assumendo forme nuove e assolutamente innovative per quei tempi. La conversione dell’Autore al Cristianesimo provoca in lui un ritorno “agostiniano” al senso dell’esistenza, un andare indietro dentro se stesso fino a riscoprirsi e a riconsegnarsi al mondo in una versione tanto più luminosa quanto più in penombra appaiono i suoi personaggi e le sue ambientazioni. Nella talvolta lugubre atmosfera di certi racconti, Lewis ripercorre in modo serissimo eppure mai pesante tutte quelle tematiche che sono sacre a prescindere, perché riguardano il percorso di ogni uomo verso la propria verità esistenziale, il suo bisogno del “desiderio” come mezzo realizzativo, e la necessità del confronto culturale tra noi e gli altri, tra un mondo e un altro. Elementi che in Narnia sono tutti già presenti, ma che in altre opere (ancora troppo sconosciute a un intero popolo di potenziali cultori) emergono con una forza insospettabile per uno che siamo abituati a leggere solo sulle pagine della sua opera più nota.
Un Lewis a tutto tondo
Così, per esempio, ne Il Grande Divorzio si immagina un viaggio in autobus dall’inferno al paradiso, dove le anime sono chiamate ad un confronto, e dove emerge in modo drammaticamente consistente la differenza tra la beatitudine e la dannazione, tra la felicità e la disperazione. Lewis parla leggerissimamente in prima persona, fornendoci ogni tanto qualche sottilissimo appiglio autobiografico, facendoci capire che in effetti lui questo viaggio lo ha già fatto, e si lascia guidare da un’anima beata che gli spiega ogni cosa. Il romanzo ricorda un’altra opera ben più nota, ed è un implicito invito a riconsiderare preziosi certi sentieri già percorsi dalla penna umana; sentieri che portano ben più “al di là” di quanto un sentiero solamente letterario può fare.
Le Lettere di Berlicche è invece un curioso e sulfureo epistolario tra due diavoli, l’uno dei quali istruisce l’altro sul mestiere del tentatore, consigliandogli i modi migliori e più efficaci per dannare un’anima umana. Così, con una maestosa ironia ed una inequivocabile profondità, Lewis ci mostra il Bene dall’altro punto di vista, dalla prospettiva di chi questo Bene lo considera il Nemico, rendendoci visibile un mondo apparentemente distante e invece ferocemente presente in ogni caduta umana. Nelle sfumature grottesche e mai gotiche di quest’opera (Lewis parla di cose serie ma non si prende mai sul serio) si legge tutta la tensione di un autore che, in fondo, sta consegnando a piene mani parti intere della sua esperienza di vita. I vapori emotivi che si sprigionano da questa lettura non sono secondi a quelli di più noti capolavori, e basta una lettura per capire che il calibro è lo stesso di Bulgakov (Il Maestro e Margherita), di Chesterton (Il Ritorno di Don Chisciotte) e di Greene (Il Potere e la Gloria), giusto per fare qualche nome.
I Quattro Amori riprende il tema del percorso dentro se stessi… Insomma, quell’idea dell’incipiente, del progrediente e del perfetto; tappe che qui non si specificano in base a come un uomo legge, ma a come un uomo ama. Quest’opera è una magistrale descrizione della natura relazionale umana, e l’umano è descritto come essere che ama in quanto tale, e che per tutta la vita impara ad amare, sempre più e sempre meglio, fino a “mettere ogni amore al proprio posto”.
E poi ci sono altri romanzi, e un certo numero di saggi, ed anche del materiale autobiografico di una certa rilevanza (come Diario di un dolore). Adelphi ha pubblicato quasi tutto, quindi nessuno potrà considerarsi escluso da queste letture.
Il desiderio di chi legge
Ecco perché c’è del sacro in Lewis.
La prolifica penna di questo Autore è stata una specie di cornucopia, dalla quale le pagine sono uscite con una forza straordinaria, nel continuo inseguire di un fine che per lui è sempre stato il motore di tutto: dare ciò aveva ricevuto, spianare agli altri strade che egli aveva già percorso, e naturalmente lasciare sempre aperta la più meravigliosa delle domande: Quid est Veritas?
E in tutto ciò, Lewis non ci ha mai fatto mancare due cose: la prima, si è sempre sforzato di farci capire che “non reale” non vuol dire necessariamente “non vero” e che, al contrario dunque, il mito è sempre il veicolo primo per comunicare la verità dell’uomo (le sue ambientazioni sono mondi verissimi, anche se irreali); la seconda, ha sempre fatto emergere dalle sue opere la necessità di quel percorso interiore che deve spingere un uomo (occasionale lettore) dall’essere uno che “comincia qualcosa” ad un altro che, con questo “qualcosa”, deve arrivare a fondersi.
E non è forse questo il desiderio di chi legge? E non è forse “sacro” questo desiderio? Quale sarà, dunque, il nostro ultimo libro?