“La terra che calpestiamo” è l’opera seconda dell’autore spagnolo rivelatosi con “Intemperie”: l’Europa è soggiogata a un impero brutale, dall’incontro fra un uomo e una donna nasce la presa di coscienza di qualcosa di terribile, metafora dei genocidi del XX secolo
L’ambizione dello spagnolo Jesus Carrasco è più estesa dei suoi lunghi baffi. Ed è un bene che chiunque cominci a scrivere non si nasconda e punti in alto. Rivelatosi con l’intenso Intemperie, Carrasco (un passato da copywriter pubblicitario) torna alla narrativa con La Terra che calpestiamo (233 pagine, 16 euro), tradotto in italiano da Claudia Marseguerra, edito da Ponte alle Grazie nella splendida collana Scrittori, mentre il primo era stato pubblicato da Salani.
Un impero brutale e un buen retiro
La terra con i suoi frutti e con i suoi odori, nella relazione viscerale che gli uomini possono stabilire con essa è uno dei protagonisti del romanzo di Carrasco, che immagina una Spagna, all’inizio del ventesimo secolo, annessa, al termine di una sanguinosa guerra, a un grande e brutale impero, che si estende dalla Russia all’Africa. L’esercito vincitore concede ai suoi uomini più in vista e prossimi alla pensione di trasferirsi nella penisola iberica, di scegliere una casa e una terra da espropriare e occupare, per vivere e tranquilli sanare le ferite delle battaglie e della memoria. Il colonnello Iosif Holman, ormai vecchio e invalido, e sua moglie Eva (che hanno perso Thomas in uno dei tanti conflitti) scelgono un minuscolo villaggio dell’Estramadura per trovare un po’ di pace. Troveranno anche, nel giardino di casa, Leva, un sopravvissuto in vesti di mendicante, col volto puntellato di cicatrici, che s’aggrappa alla terra, sua unica certezza, grembo e radici della vita. Come nel precedente romanzo, Intemperie, in cui era un rapporto a due (un bambino in fuga e un vecchio pastore) a reggere tutta l’impalcatura narrativa, anche in questo caso Carrasco affida a due personaggi, Eva e Leva, il filo della nuova storia.
Due voci in una, ma senza amore
Si fa in fretta a intuire che il romanzo è una grande metafora. Leva, che ha tutta l’aria di essere un sopravvissuto vittima di uno choc, quasi non parla, se lo fa, le sue parole sono frammentarie, borbottate e quasi sconnesse, rappresenta i senza voce della Storia. Eva, che è una privilegiata dell’oligarchia dell’impero, ha però dentro di sé abbastanza umanità per stabilire un contatto, per raccontare una storia che non gli appartiene, quella di Leva, per interpretare i suoi gesti e i suoi sguardi, per dare un sussulto a se stessa. I due finiscono quasi per sovrapporsi, per convergere in un’unica voce, sanno comprendersi e compenetrarsi, senza per questo dar vita a una storia d’amore classica.
Un linguaggio pulito e potentissimo
Nei tanti brevi capitoli che compongono il romanzo si capisce lentamente cosa è successo, una storia terribile emerge poco a poco – metafora dei genocidi della storia del Novecento – Eva prende coscienza di ciò che è successo (e del fatto che il marito adesso malato è stato un carnefice) e, a uscirne a pezzi, saranno i sentimenti nei confronti del marito, che cominceranno ad andare in direzione del rancore. Il fuggiasco, senza più moglie e figlia, cambia il suo modo di guardare al mondo. Lei lo cura, dopo averlo ferito, e si emancipa dal consorte. Carrasco è abile, anche nei momenti più drammatici e aberranti, a utilizzare un linguaggio pulito, lirico, pudico, ma potentissimo. Con una storia dal tempo indistinto parla anche del nostro tempo. Attraverso le cicatrici del volto di Leva si interroga sulle cicatrici della Storia.