“Questa sera è già domani” è il nuovo romanzo della scrittrice pisana, una storia in cui torna alle atmosfere post-leggi razziali: una famiglia di Genova – ispirata a quella del marito dell’autrice – che, solo quando tutto sembra perduto, prende coscienza della tragedia in atto in Italia e cerca una via di fuga in Svizzera
Parole essenziali, eppure vibranti. Ecco cosa c’è nelle pagine di Lia Levi, nelle sue opere, dai libri per l’infanzia ai romanzi, da quello che può essere considerato una “summa”,Tutti i giorni di tua vita all’ultimo, al più recente Questa sera è già domani (217 pagine, 16,50 euro), pubblicato come i precedenti dalle edizioni e/o. Parole essenziali, eppure vibranti. Chi ha paura di stare a sentirle, di scovare dolore, tragedia e pericolo dietro l’apparenza della normalità, non s’accosti nemmeno.
Le leggi razziali fra stupore e sottovalutazione
Solo nelle pagine finali di Questa sera è già domani – ricollegabile per atmosfere e temi a L’amore mio non può, Una bambina e basta, L’albergo della magnolia – Levi svela di aver liberamente tratto la vicenda che racconta dall’esperienza reale della famiglia del marito, scomparso da qualche anno, il saggista e giornalista Luciano Tas. La legislazione razzista che, in Italia col fascismo, divenne realtà nel 1938, ottant’anni fa, colse di sorpresa buona parte delle decine di migliaia italiani di religione ebraica («Si ritrovarono fradici senza neanche essersene accorti»), parte dei quali iscritti anche al partito fascista: in pochi compresero che andare via subito e rifarsi una vita altrove, in luoghi più sicuri, avrebbe permesso di salvarsi. Altri temporeggiarono, non credendo al peggio, alla catastrofe che verrà, nonostante preoccupanti segnali all’interno e all’esterno dell’Italia (ad esempio l’indifferenza di trentadue Stati riuniti per cercare una soluzione al problema degli ebrei in fuga da Germania e Austria).
Ottimismo uguale ottusità
Anche Marc Rimon, intagliatore di diamanti, e la moglie Emilia, ebrei genovesi non chissà quanto osservanti (in sinagoga solo per le feste principali) e genitori di Alessandro (alter ego di Luciano Tas) che sembra un bimbo e studente precocissimo, ritengono che le leggi razziali non saranno applicate o non porteranno conseguenze atroci per loro e i loro correligionari. Eppure, lentamente, incalzano provvedimenti concreti: la scuola pubblica è vietata dagli ebrei sia nelle vesti di studenti che di insegnanti, non è più possibile essere titolari di aziende o ricoprire incarichi pubblici. Ripercussioni che arrivano anche a Genova, città di tradizione antifascista, nella vita quotidiana delle famiglie, anche in quella dei Rimon. Il più giovane, Alessandro, matura in fretta la necessità di una fuga, non è così per i genitori, in particolare per la madre Emilia che incarna incrollabile ottimismo, ottusità e incapacità di prendere atto della tragedia.
Una fuga avventurosa
Il culmine del romanzo sta in una fuga avventurosa, che costa tutti i risparmi di una vita, messa in atto quando tutto sembra perduto, quando potrebbe essere già tardi (dopo il confino, dopo i bombardamenti, dopo la resa dell’Italia), per raggiungere e superare, da Como, il confine svizzero. Un ciondolino con la stella di David, dono della nonna Rachele al nipote Alessandro, risulterà in qualche modo determinante per l’epilogo della vicenda, che Lia Levi – anche lei, con modalità e in luoghi diversi dal marito, ebrea riuscita a salvarsi nell’Italia fascista – tratteggia con sapienza e lucidità, col giusto trasporto, con parole essenziali, eppure vibranti. La lettura di questo romanzo è un’iniezione di anticorpi contro pseudo ideologie che non sono mai passate di moda e contro certa indifferenza che spesso le circonda.