Grande è la maestria descrittiva (e profondi debiti con Proust) ne “Gli anni” della scrittrice francese, oggetto narrativo anomalo in bilico fra le storie della gente comune e la Storia. La scrittura dell’autrice? Un atto politico e il desiderio di eternare se stessa
Pubblicato nel 2008 per i tipi di Gallimard, Gli Anni (276 pagine, 16 euro) di Annie Ernaux, edito in Italia da L’Orma (nella traduzione di Lorenzo Flabbi), è un testo letterario anomalo. È infatti difficile definirlo come un semplice romanzo, una fiction tout court, poiché esso è prima di tutto un lungo racconto che va dal secondo dopoguerra fino al primo decennio del 2000, in cui l’autrice accumula una sequenza cronologica di episodi, personali o collettivi, scelti, osservati, analizzati, con l’intento di comprenderne la portata sociologica e al contempo l’influenza nella propria vita. Alla fabula si accompagna l’intreccio della vita della voce narrante a quella degli altri personaggi che affollano la sua memoria.
Un racconto attorno al fuoco, un album di famiglia
Sembra di essere dinanzi ad un racconto attorno al fuoco, uno di quelli in cui i padri, o i nonni, narrano ai piccoli gli eventi più significativi della loro vita e nell’atto stesso del narrare cercano di trovare la chiave di senso di ciò che hanno vissuto. Attraverso il ripercorrere delle sue vicende personali, la scrittrice cerca il senso della sua stessa storia e per questa ricerca, Annie Ernaux utilizza un espediente visivo che svolge un ruolo di cerniera del tempo: le fotografie. Con grande maestria descrittiva, la scrittrice dà vita a un album di famiglia con la sola forza evocatrice della parola che descrive: foto ingiallite e a pose fisse, come quelle degli anni ’40, a colori, fino alle digitali, accumulate nei computer con la promessa disattesa di stamparle e rivederle.
Memoria personale e collettiva
Quelle foto scandiscono la vita della narratrice, che con un “noi” è coinvolta nel racconto di episodi privati che si dipanano lungo la Storia collettiva. Le fotografie rinviano a una delle due macrostrutture del romanzo di cui la prima è la memoria personale, ma anche condivisa. Gli Anni diventa allora un lungo affresco di memoria collettiva francese, un elenco di ricordi, di brandelli di immagini, di canzoni, pubblicità, moda e costume, di personaggi famosi, episodi di cronaca, politica, sport, che hanno caratterizzato la storia di Francia, che si sono stratificati nella memoria della narratrice e che funzionano da catalizzatori di ricordi, piccole madeleine paradigmatiche comuni ad altre generazioni di lettori. È così che ad esempio, l’estate della maturità è associata alla «musichetta del Ponte sul fiume Kwai», gli anni della Ricostruzione sono scanditi dalla pubblicità e dai suoi slogan: «i mobili Lévitan sono fatti per durare!» o ancora gli anni della rivoluzione del ’68, associati ai film che sancivano l’emancipazione della donna.
Un’auto-socio-biografia
È un’urgenza del raccontare, quella di Ernaux, che parte dai pranzi delle feste degli anni ‘40, quando, dai racconti degli adulti «sbucava dal nulla e prendeva forma il tempo già cominciato»; pranzi che si trasformano negli anni, che perdono la loro vis evocativa ed emotiva e vengono, ogni anno che passa, soppiantati dalla retorica, dove i vecchi testimoni via via scompaiono dalle tavole dei ricordi. Sulla Storia collettiva e quella famigliare, si staglia lo sguardo distaccato della sociologa, che esamina gli eventi come fossero oggetti di studio. In questo senso si può applicare anche a questo romanzo la definizione del genere creato da Annie Ernaux e cioè l’auto-socio-biografia, in cui il privato si mescola al collettivo, dove lo sguardo dello scrittore si sovrappone e si confonde con quello del sociologo, dove le istanze personali traggono linfa dal vissuto comune dal quale ognuno di noi proviene.
Il bisogno di dare un nome all’universo vissuto
Il testo mostra le contraddizioni insite nei cambiamenti, la medaglia e il suo rovescio, il flusso della Storia e i rivoli delle storie della gente comune che non sempre comprende subito la portata dei cambiamenti. È la stessa Ernaux, infatti, a scrivere: «Nel corso dell’esistenza personale, la Storia non esisteva. Eravamo soltanto felici o infelici, a seconda dei giorni». Come quelli del maggio del ’68, non assimilati subito, ad esempio, nelle campagne. Un lavoro faticoso di ricerca di senso che passa anche attraverso un processo di definizione delle cose, dei concetti, dell’epistème di un’epoca. Frasi come: «il progresso era l’orizzonte delle esistenze», o «la religione era la cornice ufficiale delle esistenze», o ancora «la scuola definiva la dignità sociale», «Il silenzio era il sottofondo delle cose e la bicicletta misurava la velocità della vita» traducono il bisogno di dare nome all’universo in cui la scrittrice e i suoi contemporanei sono vissuti. Questo lavoro di ricerca e definizione ha bisogno dell’altra macrostruttura del romanzo: la scrittura. È sempre Ernaux che afferma: «la scrittura […] può captare il riflesso proiettato sullo schermo della memoria individuale dalla storia collettiva». Nei suoi romanzi, ma anche nella lettera L’altra figlia, indirizzata alla sorella morta, l’atto dello scrivere è strutturale al testo, partecipa alla sua costruzione. Sono numerosissimi, ma concentrati soprattutto nella seconda parte, i rimandi alla genesi del romanzo, alla lingua da utilizzare, alle scelte stilistiche che porteranno infine la scrittrice a trovare la forma del suo libro, la quale può sbocciare soltanto da «un’immersione nelle immagini della sua memoria per esporre in dettaglio i segnali specifici dell’epoca».
La scrittura piana, una lingua però viva
Tuttavia, per non correre il rischio di un’immedesimazione dettata solo dall’emozione, Ernaux utilizza anche in questo romanzo, come aveva fatto con Il posto, una «écriture plate», la scrittura piana, senza coinvolgimenti emotivi, senza infiorescenze o concessioni a sentimentalismi o eccessi linguistici e formali. Una lingua che però è viva, incarnata e che è anche oggetto metalinguistico di analisi sociologica: il francese neutro della maestra, delle regole, del buon uso della lingua da un lato e il dialetto della famiglia, dei giochi, della realtà, del ciclo delle stagioni, «collegata ai corpi, agli sberloni» dall’altro; la lingua del ’68 che agiva come livellatore sociale di tutte le gerarchie o l’altra lingua, l’inglese, le cui sonorità diverse e le parole «pure» conosciute attraverso le canzoni, private della quotidianità davano «la sensazione dell’aldilà».
Un movimento a spirale
Il tempo verbale che conduce il racconto è l’imperfetto «scivoloso» che crea un effetto da bolero, faticoso, che si alimenta dell’interpretazione a posteriori della vita trascorsa: gli eventi si succedono agli eventi, quelli della storia e quelli della Storia, in un crescendo che arriva fino ai giorni nostri con un movimento a spirale che sembra aver fornito una risposta alla scrittrice: la ricerca di Ernaux di una lingua, di uno stile, di una forma, da dare al contenuto del romanzo sono basilari per lei e rispondono ad una precisa volontà che è quella della scrittura come atto politico, come azione sul presente che si traduce in una osservazione della Storia, del fluire del tempo e della sua declinazione nella vita degli uomini. È forse anche il desiderio di eternare se stessa, la sua storia, il bisogno di dirsi di non essere vissuta invano. Il tempo verbale del futuro, che costituisce una sorta di cornice al romanzo, dà il via ad un movimento che comincia con una sentenza: «Tutte le immagini scompariranno» e finisce con un atto di volontà: «Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più». In questa necessità di trovare la durata bergsoniana, che è tempo della creazione, Ernaux è profondamente debitrice di Proust.
È possibile acquistare questo volume in libreria o a questo link https://www.ibs.it/anni-libro-annie-ernaux/e/9788898038169?inventoryId=47077970