Un’opera, quella dello scrittore francese, non catalogabile, indescrivibile e inimitabile che si fatica a definire romanzo, l’ennesima tessera del puzzle del suo post-esotismo. Un affascinante e incessante gioco di maschere, in cui il tempo e lo spazio sono illusori
“La vera arte deve essere indescrivibile e inimitabile”. Questo diceva Pierre Auguste Renoir, una sorta di dichiarazione poetica di uno dei maestri dell‘impressionismo, forse nemmeno troppo originale e che può essere associata a molte altre forme e movimenti artistici che ci sono stati prima e dopo, ma sempre valida come guida quando ci avviciniamo a qualcosa che ci sembrava di non aver mai visto prima. Di impressionista naturalmente in Antoine Volodine c’è ben poco e tantomeno nei 49 “narrat” che compongono questa non catalogabile, indescrivibile e inimitabile opera che si fatica a definire romanzo dal titolo Angeli minori (213 pagine, 15 euro), tradotto da Albino Crovetto e pubblicato dall’editore L’orma nel 2016.
Un Pessoa post-atomico
Forse non varrebbe nemmeno scriverne, ma abbandonarsi come Empedocle all’interno del cono di questo vulcano che è la scrittura di questo magmatico e misterioso scrittore russo di adozione francese. La reale identità dell’autore di queste pagine è incerta, la sua polverizzazione e la stessa dissoluzione dell’opera, della letteratura per come l’abbiamo sempre conosciuta, in una sorta di progetto politico tipico di ogni avanguardia artistica e in qualche modo “militante”, sembra essere l’orizzonte del post-esotismo. Questo si palesa negli eteronimi ai quali lo stesso “incerto” Volodine affida la sua penna. Un bel labirinto insomma. Quasi un Pessoa post-atomico e non solo per il suo scrivere per eteronimi.
Una parvenza di mondo fatto a brandelli
In Angeli minori i brevi capitoli sono istantanee in prosa, una struttura musicale da variazioni Goldberg con tanto di “narrat” centrale, il numero 25, con la figura di Will Schiedmann, la presunta (ma solo tale) voce narrante, creatura magica e inafferrabile. I “narrat” sono così definiti a testimonianza di un’ansia di nominazione di tipo quasi biblico e battesimale, senza cui le cose stesse non esisterebbero. Gli angeli minori che sognano questi sogni collettivi, nei quali anche l’individualità sembra soggiogata a un unico mostro pensante che attraversa questi strani simulacri dai nomi neutri e da apolidi, quali sono i 49 nomi a cui sono intitolati, sono degli scarti dalle sembianze umane in una parvenza di mondo fatto a brandelli e riempito da tendopoli, invaso da liquami putrescenti, polvere rossastra radioattiva, sangue, urina e vomito. 49 sono i racconti (narrat) di Angeli minori, niente a che vedere naturalmente con i Quarantanove racconti di Hemingway, Volodine non potrebbe essere più sideralmente distante dal maestro del realismo americano.
Le sfuggenti coordinate del post-esotismo
Piuttosto la sua struttura, va inquadrata nel suo progetto sul post-esotismo per come viene espresso in quel testo che ne è un po’ il manifesto, Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima (66thand2nd editore), dove incarcerato, l’ultimo scrittore superstite del movimento, Lutz Bassmann, uno degli eteronimi dell’eteronimo Volodine, ne traccia le sfuggenti coordinate. Questa corrente letteraria, movimento, orda rivoluzionaria o come la si voglia chiamare, secondo l’intenzione dell’autore dovrebbe articolarsi in un progetto di 49 volumi, proprio quel numero che rimanda ai giorni del Bardo Thodol, il libro tibetano dei morti, cioè la durata dello stato intermedio dopo la morte, in cui la mente può assumere una sorta di anima razionale simile a quella del sogno e può raggiungere qualsiasi luogo, qualcosa che assomiglia proprio alla letteratura.
Fra la vita e la morte
Tutti gli angeli minori che abitano queste pagine sembrano in effetti vivere in uno stato intermedio fra la vita e la morte, proprio come gli angeli sono tutti più o meno vivi e più o meno morti. Li si può sentire declamare verità come: «Ho lasciato senza alcuna transizione lo stato di latenza che prolunga così piacevolmente il nulla, per cadere poi in quello stato di agitazione che precede la morte, nel tempo atroce e lunghissimo che corrisponde alla vita», oppure un’altra che sembra uscita direttamente dalla bocca di Carmelo Bene: «Qualunque cosa accada, non si accusi nessuno della mia vita» frase pronunciata da Fred Zenfl, prototipo dello scrittore superstite, resistente, uno dei protagonisti dei “narrat”, forse lui stesso l’autore dell’intero testo, uno scrittore post-esotico all’interno di uno dei testi post-esotici.
Una Spoon River della latenza
In questa Spoon River della latenza, dello stato intermedio del Bardo, in questo incessante gioco di maschere, il tempo e lo spazio sono illusori, si può correre in un breve spazio narrativo di generazione in generazione e di secoli in secoli, dalla vita alla morte, categorie del resto non più cogenti. Lo stesso mondo che si staglia da questo sogno (o incubo collettivo) è una società gerontocratica fatta di nonne immortali, le stesse che hanno “creato” come fosse una bambola di pezza Will Schiedmann, il restauratore dell’ordine capitalistico. L’antefatto si intuisce essere stata una apocalisse purificatrice che ha distrutto il sistema capitalistico e la società dei consumi per come l’abbiamo sempre conosciuta abolendo mafie e dollari. Il dopo, per quanto sia validabile una scansione temporale in un quadro pieno di interferenze tra mondi paralleli, è la materia dei narrat e dei personaggi che ricorrono, si rincorrono e si nascondono in queste pagine a corrente alternata: “Tu, di noi due, quale sei?” dice Evon Zwogg a Yasar Dondog. Teorie del doppio, distopie, atmosfere alla McCarthy ma espunte del loro afflato nostalgico ed epico, distorsioni psichedeliche di un Philip Dick alla potenza, tutte funzionali a questa grande avventura non meglio identificata che è il post-esotismo.
I sopravvissuti alle catastrofi del XX secolo
Tutte le opere post-esotiche sono frammenti che devono andare a comporre il grande affresco, qualunque cosa questo sia. Tutti gli autori post-esotici sono scrittori superstiti, gli ultimi dopo la fine. Il filo conduttore che lega le loro opere è l’essere sopravvissuti alle catastrofi del XX secolo e il cercare una qualche forma di resistenza nell’universo carcerario dove sono stati rinchiusi e nel quale si scambiano storie fra di loro. Una letteratura che affonda la memoria -“nelle tragedie, le guerre, le rivoluzioni, i genocidi del XX secolo”- come scrive Volodine in Il post esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima. Lo stesso scenario post-apocalittico e concentrazionario che si trovava in Scrittori, il primo testo post-esotico tradotto in Italia da Clichy. Nella prigione sono rinchiusi rivoluzionari usciti sconfitti dalla loro battaglia contro le infamie del capitalismo. La sconfitta ha trasformato questi combattenti in scrittori, gli stessi citati in questa sterminata bibliografia che è appunto il volume che ne porta il titolo. È un ipertesto dove tutto si smarrisce nella ricerca di un equilibrio.
Il gioco di specchi intraletterario e il lettore prigioniero
Il gioco di specchi intraletterario può far pensare a Volodine come al più spregiudicato emulo di venerati maestri di una letteratura che divora sé stessa (Borges, Bolaño), ma si potrebbe dire anche il contrario stando a questo gioco e assumendo costoro a stessi eteronimi di colui che si fa chiamare Antoine Volodine. Lui stesso è un eteronimo, come tiene a dire a più riprese, forse solo il più ricorrente di un autore altrimenti sconosciuto, già scrittore di fantascienza, (etichetta che gli è sempre andata stretta), già docente di russo e traduttore dal mongolo di opere degli stessi autori dai quali Tarkovskij ha tratto Stalker, non a caso potremmo dire. Nello sfondo di questo grande universo concentrazionario, ultimo bastione rimasto dell’utopia egualitarista, il prigioniero in ultima istanza può essere il lettore stesso. In un mondo letterario, del quale Volodine direbbe ci ostiniamo a credere alla sua esistenza, ecco che lui si è inventato un percorso irriconoscibile a chiunque.
L’estinzione degli umani non genera riflessioni
Lo ha fatto strutturalmente prima che stilisticamente, creando addirittura un suo movimento, il post-esotismo con il progetto dei suoi fantomatici 49 volumi. Ha cercato una voce originale per emergere da un magma letterario, come un’immagine tarvoskiana dall’acqua, quel magma fatto di non esistenza, come i suoi stessi personaggi che vengono da secoli di morte e hanno vita e affiorano nelle pagine di Angeli minori come ectoplasmi dopo la fine in un mondo post-catastrofe. Gli angeli minori e tutti i personaggi post-esotici abitano un mondo post-atomico fatto di sembianze umane linguisticamente modificate, tale è il loro approccio alla realtà e al futuro, ma quale futuro? Uno dei grandi temi dell’opera è l’estinzione o la sparizione dell’umanità, ma di questo è dato soltanto lo sfondo che non necessita di uno sviluppo filosofico particolare. Il fatto che l’umanità sia praticamente estinta non genera una riflessione tragica o ecologica.
Un ritorno all’offuscamento
Volodine sembra voler sondare le estreme possibilità del titanico tentativo di espungere l’autore stesso dalla letteratura, alla ricerca di una forma che sia capace di trascendere sé stessa. L’esotismo in questo senso è la proiezione su uno schermo occidentale di fantasie effimere, che valgono la durata dell’illusione. Il post-esotismo annuncia un ritorno all’offuscamento.
Tecniche della «menzogna letteraria», termini che evocano, dove le geografie, le tassonomie, il tempo non esistono oppure sono un unico coagulo, dove la toponomastica è scomparsa o camuffata in luoghi appena intravisti come nel calore appiccicoso della Cina del sud o negli sconfinati spazi della steppa e della taiga dove gli stessi nomi dei protagonisti dei “narrat” di Angeli minori sono neutri, come neutro e indefinito è il tempo della narrazione, in una sorta di meccanica quantistica narrativa. Eppure qualcosa è rimasto. Forse gli scrittori, gli stessi della sterminata bibliografia di Scrittori, gli ultimi resistenti, i “guerrieri e le guerriere imprigionati che recitano i poemi e le storie, ma non hanno rimpiazzato le mitragliatrici con la penna o la parola teatrale”, coloro che si scambiano storie fra di loro determinando un’intelligenza collettiva che è poi il cuore e il dato “politico” del post-esotismo, un nuovo mondo forse, dove non esisteranno più scrittori, ma tutt’al più uomini e donne che, tra l’altro scrivono.
Oltre il linguaggio omologato al potere
L’ultimo prodotto di questi reduci si chiuderà con una frase decisa da tempo – «Io mi taccio» – che aleggia nell’ultima battuta di Terminus radioso (l’ultimo in ordine cronologico uscito da noi per merito di 66thand2nd). Anche in questo libro, che è il risultato di una sorta di zibaldone sul quale Volodine ha lavorato per anni, la protagonista è una nonna immortale, nonna Udgul, insieme al suo compagno Soloviei. Le autorità del Partito Supremo la vorrebbero già morta e sepolta, per commemorarla come un’eroina piuttosto che sopportarla come una dissidente. Nel kolchoz sperduto nella steppa, la Pila atomica è il nuovo Dio, non rifugiatosi nell’alto dei cieli, ma 2000 metri sotto terra. La sacerdotessa nonna Udgul, l’immortale, non getta vergini sacrificali in quella bocca incandescente, ma rottami radioattivi, per placare la fame del dio nucleare, per perpetuare la pur sterile, esausta e decimata umanità. L’allegoria e la parodia incarnata da un testo come questo, la messa a distanza e l’umorismo sono adoperati perché nessuna affermazione passi per definitiva. Altra tecnica è lo straniamento onirico permanente e lo slittamento logico-temporale che sembra minare l’equilibrio di un mondo romanzesco multiplo ma totalitario, chiuso in sé stesso in maniera settaria ed ermetica. Si è sempre “dentro le mura” e “nel realismo socialista magico”. L’umanità sembra correre rapida verso l’autodistruzione, sopravvivendo a sé stessa. La dimensione sociale, politica è fortissima e onnipresente. Il capitalismo e la sua fine è sempre vagheggiata e mai identificata, come la sua stessa rinascita in Angeli minori con il “tradimento” di Will Schiedmann, che verrà per questo giustiziato. Volodine sembra dirci ci sia sempre la possibilità di nuove strade (narrative), di nuovi stili e parole che non siano asservite al proliferare del linguaggio omologato al potere, ai mezzi di consumo e distrazione di massa.
Il fallimento delle utopie rivoluzionarie
Tutto si origina dal fallimento di un sogno collettivo. Le ideologie egualitariste hanno fallito dovunque, l’utopia rivoluzionaria è tramontata. Però non c’è rassegnazione, non c’è pacificazione. Tutti i romanzi (chiamiamoli così) sono opere in fermentazione perpetua. I personaggi vi abitano in uno stato alterato di realtà, senza un dentro e un fuori, vita e morte, sogno e realtà, collettivo e individuale si confondono, in una letteratura collettiva e polifonica che proprio in Angeli minori ha la sua più piena espressione. Leggendolo o prendendo in mano qualsiasi testo post-esotico viene da domandarsi con uno dei suoi personaggi: “A che punto del sogno siamo?”. L’autore stesso potrebbe rispondere con quel “qualcosa che dal nulla va verso il nulla”. Viene in mente il Lynch di Mulholland drive che a chi gli chiede di cosa parli il suo film risponde semplicemente che si tratta di un auto che nella notte attraversa il deserto e si lancia verso l’oceano.
Sognare i sogni degli altri
Gli angeli minori sono persone che sognano i sogni degli altri, frutti di un parto collettivo e sciamanico, proprio la storia su cui si innervano i “narrat”, in questo non tempo imbevuto di oblio nel quale le voci e i livelli di finzione si mescolano nella più completa promiscuità, come uno scrittore stesso in fondo è assediato dagli spiriti di altri scrittori, che si impossessano del suo corpo creando dentro di lui una polifonia di voci, quale è del resto il metodo di lavoro di Volodine, collettivo, perché scrive più romanzi contemporaneamente, sotto vari pseudonimi.
Questo inesausto gioco di maschere si esplicita in Angeli minori in uno degli ultimi “narrat”, dove la millenaria Maria Clementi, sembra palesarsi come la vera autrice di tutti quanti e la quale come destandosi da un sogno o incubo collettivo, in una sorta di possessione confessa di aver abitato il corpo di Will Schiedmann, il restauratore dell’ordine capitalistico, colui che si presenta nel narrat iniziale recandosi da Enzo Mardorissian, il regolatore di lacrime, e che ritroviamo nel “narrat” finale a chiusura ideale di questa strana cosa che è quest’opera, dove si congeda da noi lettori in questo modo:
“Nessuno rispose più a miei appelli. Poiché mi spaventava allontanarmi dall’alone che la lanterna emetteva nello spazio nero, iniziai a vivacchiare vicino alla fiamma. Una notte i miei vestiti presero fuoco. Restai al livello della cenere per qualche tempo, rabbrividendo e piagnucolando. Diciamo quattro o cinque anni. Mi accadde di emettere gemiti per fingere di parlare col vento, ma più nessuno si rivolgeva a me. Diciamo che ero stato l’ultimo quella volta. Diciamo così e non parliamone più”.
Noi siamo invece consapevoli che l’ultima parola, almeno in letteratura, non esiste e Volodine ce lo insegna.