“Tutto quello che è un uomo” è una raccolta di racconti con grande coerenza stilistica e temi ben definiti: i maschi e l’Europa d’oggi come nessuno sa raccontarli. L’ha scritta David Szalay, nato in Canada, cresciuto in Inghilterra, che vive in Ungheria, da dove il padre andò via
Ci innamoriamo. Succede. Ci innamoriamo di persone, di luoghi, di musiche, di film. Ci innamoriamo di pezzi del nostro passato che consideriamo irripetibili, di persone che non lo meritano, di città che non riusciamo a visitare più di tre, quattro volte nella vita. Ci innamoriamo e dura per sempre. Oppure no. Ci innamoriamo di date, di sguardi, di frasi, di scene teatrali, di spezzoni di film, di ritornelli di canzoni, di frasi di libri. Ci innamoriamo, anche, di libri. Ce n’è uno, in circolazione, di cui è impossibile non innamorarsi. Segni particolari: copertina verde petrolio, autore nato in Canada, di origini ungheresi, cresciuto in Inghilterra e tornato a vivere a Budapest, un risultato che è l’autopsia dell’inadeguatezza, della solitudine, dello spaesamento e dell’insicurezza del maschio contemporaneo, come nessuno lo sa raccontare.
Storie che parlano al cuore di chiunque
Chi non se l’è ancora procurato, rimedi. Prenda Tutto quello che è un uomo (402 pagine, 22 euro). L’autore si chiama David Szalay. Questo è il suo quarto libro, che l’ha proiettato nella short list del Man Booker Prize 2016, quello vinto da Lo Schiavista di Paul Beatty. Interessantissimo, quest’ultimo, ma con il limite di una scarsa universalità: tante cose le capisce compiutamente solo chi mastica di politica interna statunitense o magari chi vive nella periferia di Los Angeles. Tutto quello che è un uomo, invece, è un libro di racconti (nove, e forse c’è solo un libro composto da altrettanti racconti, con la copertina candida, che abbiamo la certezza duri di più nel tempo), con un unico chiarissimo tema e una certa coerenza stilistica, che può parlare al cuore di chiunque. Szalay è uno scrittore di prim’ordine, ma solo chi sta dalle parti del cuore o del cervello della casa editrice Adelphi è stato capace di servirci le sue nove storie con un unico destino su un piatto d’argento e con una splendida traduzione, quella di Anna Rusconi.
L’Europa globalizzata e decadente
Cosa c’è in queste centinaia di pagine? Ci sono padri e figli, vecchi e giovani, maschi, in viaggio, senza troppi stereotipi, ma senza sconti, in una porzione delle loro vite, con storie sospese, cioè senza finali definiti. C’è un’indagine in forma narrativa su ogni età della vita, dall’adolescenza a quella che corteggia la morte (ma non vuol saperne). E c’è un ritratto dell’Europa del presente – dalla Germania alla Polonia, dall’Inghilterra all’Italia, da Cipro alla Spagna, senza che questo significhi leggere dei riflessi dei grandi fatti di cronaca internazionale – un continente globalizzato, omogeneo, decadente, quello del ventunesimo secolo, che può sconcertare solo chi chiude gli occhi o fa finta di non vederla, chi sta chiuso nel suo guscio e non può, non vuole, non sa, uscirne. Szalay alza il sipario su grettezza, viltà, squallore e ogni sorta di debolezza. I suoi personaggi (il primo poco meno che minorenne, l’ultimo ultrasettantenne) non ottengono granché, spesso falliscono, anche quando non sembra, anche quando non hanno desideri smodati e chissà quali ambizioni. I giudizi non sono espliciti, ma non c’è scampo: emerge in fretta una certa mediocrità, in vari contesti e in tutte le età, senza che necessariamente ci siano colpi di scena o sorprese; trionfano l’eleganza dello stile e l’empatia dello scrittore con i lettori e i protagonisti delle sue storie.
Un narratore tra Mitteleuropa e Nord America
Cosa vogliono i maschi contemporanei in Tutto quello che è un uomo? Quello che cercano da sempre, ovvero il successo, le donne, la ricchezza, il potere; spesso, quasi sempre, si sentono fuori posto e vanno via, in cerca di se stessi, sono in crisi, sradicati, incompiuti, spaesati, inadeguati, irresoluti: non sanno cosa vogliono e magari quando raggiungono un obiettivo, o sono a un passo dal farlo, lo mollano (esemplare, in tal senso il racconto che ha come protagonista James, un agente immobiliare), quando sono di fronte a un bivio e a una nuova sfida provano a sfuggire come, in un altro racconto, il filologo Karel, tutt’altro che felice che la sua ragazza Waleria aspetti un figlio. Classicissimo, eppure super moderno, il modo in cui Szalay racconta tutto ciò, ovvero la crisi dell’individuo di sesso maschile, narrata in un tempo presente, e malinconicamente, intensamente: i geni letterari dello scrittore del resto oscillano fra la Mitteleuropa e oltreoceano, e in certi passaggi si vedono tutti. Alcuni passaggi dei quali, a lettura ultimata, sarà naturale andare a rileggere. Adolescenti o giovani in vacanza, fra ormoni e disagio esistenziale, anziani terrorizzati dall’ultimo istante che s’approssima, o adulti altrettanti impauriti per i motivi più vari, fanno i conti con il tempo e anche con l’idea di mortalità. I personaggi femminili? L’unica prospettiva in cui vengono inquadrati dall’autore e dai suoi antieroi è, volutamente, con gli occhi di uno sguardo maschile. Con tutto ciò che ne consegue…
Prosa avvolgente, amara e grottesca
La prosa di Szalay è ipnotica e avvolgente, si nutre di ironia amara e grottesca. I suoi personaggi (quasi tutti eterosessuali) forse sgradevoli, ma molto umani, troppo umani, vicini, vicinissimi, a quelli che vivono nel mondo, con tutte le loro aspirazioni e pulsioni, in bilico fra ambizioni e paure, interrogativi esistenziali, errori e speranze; è facile immedesimarsi in loro, perché di fatto l’autore ne adotta il punto di vista. Immedesimarsi uomini e donne, si badi bene: la maggior parte delle donne sanno benissimo, nel bene e nel male, tutto quello che è un uomo.