Il secondo romanzo dello scrittore siciliano, “Suttaterra”, è una storia d’amore, un’indagine sul male, un’istantanea tra religione e paganesimo. Narra il viaggio di un becchino tra Usa e Sicilia, alla ricerca della moglie morta…
Almeno un paio di grossi equivoci aleggiano attorno al secondo romanzo di Orazio Labbate, siciliano di Butera (come il troppo in fretta dimenticato Fortunato Pasqualino). Uno sta nell’affastellarsi di grandi nomi che vengono accostati a lui come ispiratori o termini di paragone, perfino nelle bandelle del libro. Invece è chiaro che questo giovane autore ha una sua voce inconfondibile e originale, che si sarà anche abbeverata a certa tradizione isolana e americana, ma che calca ormai orme tutte sue. E certi confronti ripetuti, certe volte stucchevoli, non sono positivi, rischiano di far passare il messaggio di un epigono. Continuare a tirar fuori collegamenti, a volte anche forzati, con maestri del passato e del presente, oltre a coltivare etichette di genere (“gotico”), quando i generi sono paletti invisibili. Altro qui pro quo, fatto probabilmente in buona fede da molti osservatori, critici, su giornali di carta o sul web, è ritenere che ciò che è complesso sia anche complicato. Suttaterra (140 pagine, 12 euro), secondo romanzo di Labbate, secondo atto di una trilogia che prossimamente lo scrittore completerà, è stato descritto come qualcosa di incomprensibile ai più, quasi un verbo per pochi iniziati: è invece letteratura della più bella, quella che scava dentro; è una storia d’amore capace di attraversare l’oceano e di sfidare perfino la morte; è una vicenda che indaga il male, ma non solo, anche la contrapposizione fra religione e fanatismo, e tra fede e paganesimo, con un diluvio di simboli che galleggiano sulle pagine.
Una lettera dall’aldilà
“Arriverai dal mare e ci rivedremo nel nostro posto speciale. Tra un mese. La tua Maria”. La lettera è inequivocabile e invita il destinatario a lasciare gli Stati Uniti e a partire per la Sicilia meridionale, laddove tutto è iniziato, la storia fra un uomo e una donna. Il destinatario è Giuseppe Buscemi, figlio di Razziddu (predicatore emigrato dalla Sicilia, protagonista de Lo Scuru). Giuseppe è il becchino di Milton, in West Virginia, ed è vedovo da un anno, anche se non s’è mai rassegnato e s’è lasciato andare a malinconie alcoliche e a idee suicide. Il mittente della lettera è la moglie morta, Maria Boccadifuoco, che era anche incinta; lui, fra sconcerto e amore, s’imbarca su una nave fantasma, la petroliera Christmas, a Baltimora, e parte per Gela, la città del Petrolchimico fosforescente, trasfigurata da Labbate, che conosce benissimo quelle terre. Ecco la scintilla di Suttaterra, con una lingua scrostata da dialettismi, ma sempre ricercata, evocativa, affascinante e febbrile: per la parola scritta l’autore e il suo editor Vanni Santoni hanno una devozione totale.
Incubi e deliri
La narrazione visionaria è un susseguirsi di incubi e deliri, di cupe reinvenzioni di luoghi marginali a cui Labbate conferisce inquietante spessore. Quello dell’italo-americano Giuseppe, più che un ritorno a casa è una discesa apocalittica agli inferi, tra fantasmi, leggende, epifanie e presagi, un viaggio lungo luoghi claustrofobici, in cui incontra personaggi misteriosi. Se proprio bisogna azzardare qualche avo letterario, per Labbate, viene da pensare a Moresco, o a certa tragedia classica, a qualche eco grottesco di Kafka. Metafisico e terreno convivono in una miscela speciale, luce e buio si alternano, le suggestioni si sprecano. Spesso si scrive che certi romanzi sono pronti per diventare un film, leggendo Suttaterra viene da pensare: “Chissà se qualcuno avrebbe il fegato e la capacità di realizzarne una trasposizione cinematografica…”. Forse la Sicilia, salutati i giganti affermatisi nella seconda metà del Novecento, ha trovato un suo nuovo grande scrittore, o almeno la strada è tracciata.
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Ho letto Suttarerra… pura angosciante fantasia… incubo… lettura travolgente.