“Il nostro mondo morto” è una raccolta di otto sorprendenti racconti della scrittrice boliviana: attraverso personaggi memorabili, tra deliri e sogni, si raccontano tensioni e ossessioni di ciò che di inquietante si può intrecciare alla realtà
Liliana Colanzi, di origini abruzzesi, ridisegna, almeno in Italia, la geografia letteraria boliviana. Se Jaime Saenz è il “monumento” del secolo scorso, Edmundo Paz Soldán il contemporaneo più conosciuto (a ragione), Manfredo Kempff Suárez l’autore sottovalutato dalle grandi sigle editoriali italiane, Rodrigo Hasbùn il talento più puro e dal futuro garantito, Liliana Colanzi, classe 1981, irrompe con alcuni racconti che focalizzano l’attenzione su tutto ciò che di inquietante e soprannaturale può immaginarsi nella realtà.
Aggiornare e superare la tradizione
Le edizioni Gran Via continuano un lavoro di ricerca che ha come stella polare la qualità. Liliana Colanzi (che è moglie di Edmundo Paz Soldán e insieme a lui vive e lavora negli Stati Uniti) è solo uno degli ultimi esempi virtuosi di un catalogo che cresce, aggiungendo ogni volta un tassello importante. Il nostro mondo morto (128 pagine, 13,50 euro) è una raccolta di otto racconti, tradotti da Olga Alessandro Barbato, che sceglie, felicemente di lasciare in lingua originale alcuni vocaboli. Sono storie brevi, quelle di Colanzi, che tengono conto della grande tradizione latinoamericana (Arguedas, Asturias, lo stesso Saenz, un pizzico di Bolaño), e non solo, ma la aggiornano e in qualche modo la superano, e non solo per uno sguardo più cosmopolita: tensioni e ossessioni si avviluppano attorno a trame irreali tutto sommato esili, ma potentissime, con più di un personaggio memorabile, tra deliri incomprensibili e sogni.
Allegorie e paure primitive
Una lieve tensione e una leggera angoscia introducono questi racconti dedicati al marito, colmi di allegorie, che intrecciano generi e indagano paure primitive dell’uomo e le sfumature sinistre della quotidianità. Nel racconto eponimo una donna, dopo una ferita d’amore non del tutto ricucita («Tommy scrisse per raccontarmi che stava uscendo con una e che avrebbe avuto un figlio»), partecipa a una missione su Marte e prova a dimenticare, allacciando anche un’altra relazione. In Chaco lo spirito di un indio assassinato si impadronisce del corpo del suo omicida e lo tormenta. Ne L’occhio la presenza costante di una madre ossessiona una figlia, perseguitandola fino a un cinema dove consuma la sua prima esperienza sessuale. In Alfredito il più piccolo compagno di classe muore, ma riappare in sogno e promette di tornare (e in effetti, forse, nella sua piccola bara continua a respirare…). Storie così, otto in tutto. Levigate, intense, suggestive, con un pathos difficilmente rintracciabile in molti libri, almeno dei coetanei di Liliana Colanzi, che in futuro si confronterà con la forma romanzo ed è molto attesa, almeno dall’altra parte dell’oceano: inevitabile perché questa scrittrice ha padronanza dei mezzi narrativi, abilità tecnica e un registro linguistico vasto, in cui convergono poesia, tradizione e orale e modernissime istanze della letteratura. Una vera scoperta.