“Le assaggiatrici” di Rosella Postorino svela una pagina poco nota del nazismo, e dà vita a personaggi che pulsano, scalpitano e non cessano di muoversi, interrogarsi e cercare la luce in quell’universo contraddittorio, ripugnante e commovente che è la vita
Prussia Orientale, 1944: nella “tana del lupo”, il rifugio segreto di Hitler, alcune donne sono assunte e pagate dal regime per mangiare il cibo del führer e verificare se sia o meno avvelenato. Questo è il nocciolo de Le assaggiatrici (285 pagine, 17 euro), il nuovo romanzo di Rosella Postorino edito da Feltrinelli. Una vicenda vera, anche se poco nota, alla quale l’autrice si è appassionata leggendo su un giornale di Margot Wölk, una di queste donne, a lungo chiusa nel silenzio sulla vicenda e disposta a far trapelare qualcosa solo intorno ai novant’anni, poco prima di morire e di lasciare la stessa Postorino, alla ricerca di testimonianze, priva di un racconto autentico della storia.
Una coppia costretta a separarsi
Ma il romanzo è terra di invenzione e così, a partire dallo spunto storico, l’autrice se ne è servita per allestire la vicenda di Rosa Sauer, 26enne berlinese sposata da un anno con Gregor. Lui è partito per il fronte, la madre è rimasta uccisa sotto i bombardamenti della capitale tedesca, non le resta che scappare in campagna dai suoceri, le uniche persone con cui condividere solitudini, dolori e speranze in attesa che Gregor faccia ritorno. Sarà lì che Rosa entrerà a far parte, con altre ragazze e donne, della squadra di assaggiatrici di Hitler, ogni giorno condotte in caserma per sedersi alla mensa e assaggiare i pasti potenzialmente letali destinati al Führer.
L’ambiguità servita a tavola
Una condizione ambigua e spaventosa: la possibilità di mangiare mentre, intorno, si muore di fame per la guerra. Eppure anche la possibilità di morire a ogni boccone, nel caso in cui fosse realmente avvelenato. È lo scacco a cui sono condannate Rosa e le ragazze che come lei assaggiano, vittime di un grande “sistema digerente” che le vede pedine impossibilitate a decidere, destinate a correggere ogni passo forzato e imposto dall’esterno perché sia il più utile possibile alla propria sopravvivenza. Si accetta così la scommessa dell’assaggio per mantenersi vive, per uno stipendio utile alla famiglia, perché si è state scelte dalle SS e non si potrebbe rifiutare, perché in quella mensa, per quell’intero anno che precede la disfatta tedesca, si vive come in una bolla parzialmente protetta, solo marginalmente lambita dagli orrori della guerra.
Stridono le bombe, là fuori, le lettere che annunciano dispersi, la crudeltà dei militari, e stride la figura di “Briciola”, il cuoco di Hitler, preoccupato dalla preparazione di manicaretti realizzati secondo le volontà del dittatore quando invece, fuori, manca il latte per i bambini. I bambini, quegli stessi piccoli esseri che, destini futuri, non hanno diritto di cittadinanza in un mondo concentrato sull’oggi, sull’esserci resistendo a tutto, e sono cercati e insieme temuti da chi quell’universo lo abita macchiandosi ora dopo ora del peccato della guerra e dei suoi rivoli, spire che contagiano con la contraddizione altre esistenze. È una scacchiera di bianchi e neri dove le sfumature di grigio diventano colpe e segreti, pulsioni, dolori, angosce e rassegnazione in ogni personaggio, e di cui Rosa è l’alfiere incaricato di spiegare, di raccontare.
Una lingua per narrare il corpo
In questa morsa, che sazia la fame nel gioco della morte preparato in mensa, esplode il grido dei corpi. Corpi saziati nel rischio più grande e tuttavia connaturato da sempre, quello della morte attraverso l’alimentazione. Ma anche, sempre, corpi costretti, corpi colti nell’intimità che si vorrebbe domestica e privata, ma che è costretta a farsi collettiva e pubblica nei rigori della guerra. E poi corpi che chiamano, attraverso segnali interni solleticano coscienze, si interrogano, vibrano, e lasciando segnali eloquenti attirano e insieme ripugnano. Sono corpi che parlano, i veri protagonisti di queste pagine.
Con una lingua che scolpisce le sensazioni e i pensieri di Rosa, alla quale è destinato il racconto in prima persona di questa vicenda, Rosella Postorino esplora il grande “sistema digerente” della guerra. Ed è attraverso il corpo – e la sua lingua antica – che dà forme e sensazioni alle ambigue derive di un tempo non ordinario: ascolta il grido dei suoi protagonisti, che cedendogli, tornando indietro, ascoltando o fingendo di non sentire finiranno per diventare i reduci, i sopravvissuti. Di questo percorso sono nutrimento i morsi di dolore che annientano fino a far desiderare di morire, la scomposizione in figure staccate dalla realtà, che si muovono come silhouette prive di tridimensionalità fisica, la restituzione al mondo, infine, dopo un processo che li ha trasformati e che per farli sopravvivere li ha resi capaci di ogni azione. La digestione è la grande metafora in cui è assorbito tutto: il cibo, la sua sensazione sul palato, tattile, olfattiva, le labbra che mordono, gustano, ma baciano anche, i giochi perversi dell’infanzia, in cui scoprire il mondo – e la morte – giocando a mandare giù in gola oggetti per sfidare la morte e sentirsi vivi.
Il morso della colpa
La colpa è, dopo il corpo, l’altro grande tema e fil rouge di questa potente storia, che risuona – ancora una volta metaforicamente – in pancia. La colpa e i segreti che le si ricamano intorno, per tenerla nascosta, invisibile agli altri, pena da espirare in solitudine, peso da sommare a un elenco segnato solo nella mente. È colpa il poter mangiare a sazietà mentre fuori si ha fame, è colpa il desiderio del corpo, irrefrenabile e soddisfatto alle peggiori condizioni. Colpa è tacere per tenersi vivi, fidarsi amando e scoprire di aver sbagliato ma essere ancora integri, scappare per salvarsi, abbandonando anche gli affetti. La colpa morde come la fame, in una lotta che non conosce pace e che deve imparare a camminare rischiando a ogni passo su quel filo che separa il giusto dal non giusto, l’amicizia dall’opportunità, la vita dalla morte.
Rosa vive tutto su quel filo: il cibo, ogni boccone un potenziale pericolo che le strapperebbe la vita; l’amore, coltivato nel segreto tra le pulsioni del corpo e del desiderio; le amicizie, con i loro voltafaccia inattesi e i gesti pensati e mai concretizzati. E ancora i segreti, gli egoismi della guerra, e altre colpe, altri peccati dettati dalla disperazione, che nella scrittura di Rosella Postorino compaiono e via via prendono corpo, da germogli ad arbusti, mattoncino dopo mattoncino, a costruire le mura portanti del romanzo, a indicare i suoi punti cardinali.
La perdita dell’innocenza
La colpa si lenisce in uno scollamento dalla realtà, che non sembra più tornare: ci sono i ricordi e le foto di un prima sempre più lontano, ma è buia la speranza nel domani, la visione di un futuro che non sia quotidiana angoscia, lunga quanto una guerra, rigida quanto una vita che si ciba di pulsioni, segreti e sensi di colpa. È una vita che, per proseguire, scoprirà di dover imparare la sopravvivenza con tutti i suoi compromessi, fisici e morali. Accoglierà così, nel grande silenzio quasi pudico delle assaggiatrici sulla propria attività durante il nazismo, la perdita di un’innocenza macchiata di sangue, di tradimenti, di voluta ignoranza dei fatti là fuori, tra campi di sterminio e roghi di libri. «La verità non l’ho mai saputa, non l’ho mai chiesta» dice infatti Rosa: dovevo sopravvivere, sembra scusarsi la stessa voce, affamata di esistenza.
Rosella Postorino costruisce un romanzo che ha il pregio di svelare una pagina poco nota del nazismo, e dietro una rigorosa ricerca storica dà vita a personaggi che pulsano, scalpitano e non cessano di muoversi, interrogarsi e cercare la luce in quell’universo sempre ambiguo, contraddittorio, al contempo ripugnante, commuovente e palpitante che è la vita.
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