La parola a una delle rivelazioni di questa stagione letteraria, autore del romanzo “Grandangolo”. L’apprendistato editoriale, i buoni propositi, i sogni e i successi di un giovane torinese cittadino del mondo
Al telefono la voce di Simone è chiara ed entusiasta. E non potrebbe essere diversamente. Simone Somekh è un giovane uomo che da qualche mese ha pubblicato un romanzo, Grandangolo (la nostra recensione), che sta lasciando il segno. A maggio conseguirà la laurea magistrale in giornalismo alla New York University. Da giornalista ha collaborazioni nella Grande Mela, e non solo, e un contratto part-time che spera diventi presto full-time. E, prima di rientrare in America, ha girato l’Italia, presentando il suo romanzo.
Somekh, come vive questa nuova realtà di un tour promozionale per l’Italia…
«In me convivono agitazione ed eccitazione, ma è un’esperienza meravigliosa, mi apre nuovi mondi, nell’interazione con i lettori. Anche se chi scrive oggi ne ha tanta. Non si ricevono più lettere, ma commenti sui social network e mi fa piacere essere spesso inondato di messaggi».
Non è da tutti fare centro con un debutto a 23 anni…
«Credo di essere stato tenace e di aver trovato le persone giuste, alla mia età sono preso sul serio come giornalista e come romanzieri, non potrei chiedere di più alla mia età. Scrivo da quando ero piccolo. Questo non è il mio primo romanzo, ma quello che è stato reputato abbastanza maturo da potere condividere con un pubblico; per un precedente, completato a diciotto anni, ho ricevuto rifiuti… entusiasti. Nel mio lavoro di giornalista, qui a New York, capita di ricevere rifiuti, magari sono più gli articoli rifiutati che quelli pubblicati, è una dinamica che conosco, ma i no ricevuti per il primo libro hanno avuto una valenza importante, mi hanno spinto a fare meglio. Vari editori, fra cui Giuntina, mi hanno comunque incoraggiato, il massimo per un giovane, si è creata una mentorship. Poi chi mi ha pubblicato ha solo guardato al testo, non alla mia età. Io ci ho messo del mio, non mi sono fermato un attimo e spero di continuare ad avere questo tipo di atteggiamento anche in futuro».
Del primo romanzo cosa resta?
«Resta un’idea nel cassetto, ma non sono tipo da guardare troppo indietro, penso al futuro. Magari qualche personaggio che mi è rimasto nel cuore potrebbe tornare, ma non è detto».
Troppo semplice rintracciare suoi elementi autobiografici in Ezra, protagonista di Grandangolo?
«L’associazione a Ezra o a qualsiasi altro personaggio mi infastidisce, è superficiale. Non scriverei mai un’autobiografia poco più che ventenne. Semmai mi auguro sia la biografia di molti, di ragazzi che vogliono ottenere libertà e decidere i valori secondo cui vivere, penso di provare emozioni che molti potrebbero provare. Il mio romanzo prova a essere universale, muovendosi da una realtà molto specifica, in una dinamica globalizzata come quella attuale ci sono tantissimi giovani che partono, non sempre per scappare, ma per conoscere il mondo».
Con Ezra condivide l’amore per la fotografia?
«Non mi considero un buon fotografo, sono certamente un appassionato, mi piace guardare a ammirare le immagini di grandi fotografi. E prima di scrivere il romanzo mi sono molto documentato e ho fatto tantissime domande a gente molto esperta».
Nelle sue pagine condanna ogni discriminazione, a cominciare dall’omofobia…
«Il fanatismo è diffuso in certe comunità ortodosse, ma anche in contesti non religiosi, pure in Italia. C’è chi vuol negare la libertà altrui per vivere secondo la propria verità. Io la vedo in modo diverso. Il mio è un romanzo di prospettive, anche quando Carmi (giovane gay in una realtà in cui l’omosessualità è discriminata e avversata), col suo conflitto interiore, sembra rubare un po’ la scena a Ezra, non è così. La telecamera, per così dire, punta su di lui con lo sguardo di Ezra, dal punto di vista di chi è comunque un suo alleato. Più che su chi subisce un’ingiustizia, mi interessava che il lettore si immedesimasse in una persona che ha la possibilità di fare una scelta, in questo caso a favore di Carmi».
Un bel riconoscimento è la prima traduzione di Grandangolo che arriverà, in francese?
«Una notizia meravigliosa, anche perché potrò leggerla direttamente, conoscendo la lingua. Credo sia anche una vittoria di un editore di nicchia ma prestigioso come Giuntina. Siamo alla seconda ristampa in nemmeno due mesi, abbiamo chiuso il contratto in Francia, non do per scontato il fatto di ricevere un’attenzione importante da parte della casa editrice, il rapporto con Giuntina è eccellente. Ed è un modo di dire anche ad altri giovani scrittori di fare una scelta consapevole, quando si ha la possibilità di scegliere un editore».
Quali letture la hanno ispirata per scrivere Grandangolo?
«Ho gusti eclettici e ho letto un sacco di cose che magari mi saranno utili in futuro e altre che mi sono servite, anche se all’apparenza potrebbe non sembrare così. Amo lo humour irriverente di Zia Mame, quel tono lì, ma è chiaro che non l’ho adottato particolarmente in Grandangolo. Ho letto e riletto molti libri di Banana Yoshimoto, in particolare Honeymoon, ma anche Kitchen. In questo che è il suo primo libro, la scrittrice giapponese riesce con grandissima semplicità, modestia ed eleganza a creare intimità con i personaggi. Spero che qualcosa di simile si veda nei dialoghi fra Ezra e Carmi, perché in qualche modo li ho concepiti ispirandomi alla Yoshimoto. Poi considero Jonathan Safran Foer un maestro, ho tenuto presente la lezione di Chaim Potok e ho divorato Jonathan Franzen, che apprezzo per il modo in cui caratterizza i suoi personaggi come antieroi. Anche io non voglio raccontare di personaggi perfetti. Siamo tutti imperfetti, anche i miei personaggi, ne vediamo già abbastanza di patinati nelle serie tv e in certi reality, è follia credere di dover diventare come loro. La letteratura deve riparare i danni fatti dalla televisione».
Altri titoli di letteratura ebraica tenuti in considerazione?
«La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer mi ha toccato parecchie corde. E poi i romanzi di Ayelet Gundar-Goshen, mi considero un suo fan, spero di incontrarla un giorno».
Avete lo stesso editore italiano, non dovrebbe essere difficile. Rispetto a tanti scrittori, anche suoi connazionali, che sono partiti dalla narrazione di un microcosmo ebraico, il suo Grandangolo ha, inevitabilmente un respiro più internazionale. Un passo in avanti?
«Non saprei, in ogni caso non mi sembra il caso di fare confronti con nessuno, tanto più se sono mostri sacri. Credo sia molto difficile per me scrivere qualcosa che non abbia un respiro internazionale, per la mia esperienza di vita, anzi sarebbe un bell’esercizio per me limitare una narrazione in un singolo luogo. Ho avuto la fortuna di viaggiare e spostarmi molto, in Italia, in Israele, negli Stati Uniti. Anche Grandangolo è stato scritto in luoghi diversi, un terzo sulle Dolomiti, un altro a New York, in tre settimane, e infine a casa, allora abitavo a Tel Aviv. Io per natura sono sempre curioso ed estroverso, quando sono in viaggio faccio domande, da ogni spunto e da ogni idea può nascere una storia».
A proposito di storie, cosa ci sarà dopo Grandangolo?
«Scrivo sempre, scrivere narrativa in italiano la sera mi permette di staccare dal lavoro quotidiano. Ho continuato a scrivere, naturalmente, anche dopo aver consegnato il romanzo, almeno due anni prima della pubblicazione, perché il processo editoriale è abbastanza lento. Inevitabilmente in questo periodo ho lavorato su qualcosa, ma non voglio rivelare troppo…». (Questa intervista è stata pubblicata, in forma ridotta, sul Giornale di Sicilia)
Non possiamo definirlo un romanzo appassionante, ma sicuramente appassionato, come Ezra e come, soprattutto, l’autore che traspare, attraverso le parole messe in bocca ai personaggi, un piccolo uomo libero e “affamato” di vita.
grand bel lavoro letterario sono anchio fotografo amatoriale il mondo della fotografia e
una jungla grazie al autore complimenti