Con il romanzo “La luna e i falò” Cesare Pavese affronta il grande tema del ritorno alle radici, al paese natio. Un viaggio verso le origini, fra cose immutabili e cambiamenti epocali, con uno stile e una scrittura non del tutto riconducibili al Neorealismo
La luna e i falò (208 pagine, 12 euro), edito da Einaudi, è l’ultimo romanzo di Pavese, scritto nel 1949 e pubblicato nel 1950, pochi mesi prima del suo suicidio. Nell’estate del ’49 l’autore intratteneva una corrispondenza epistolare con Pinolo Scaglione (che nel racconto sarà l’ex partigiano Nuto), a cui chiedeva chiarimenti su avvenimenti del passato e, in particolare, sulle ragioni profonde che spingevano alcune famiglie di Santo Stefano Belbo, paese delle Langhe cuneesi in cui è nato, a chiedere al Comune un bastardo da allevare.
Un bastardo di ritorno dall’America
Tali ragioni vengono spiegate nel romanzo attraverso il racconto della storia del suo protagonista, Anguilla, che, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, decide di tornare nella sua terra di origine dove ha miseramente vissuto da bastardo. Torna dall’America che nel libro rappresenta la mancanza di radici. Anguilla è un orfano e alla famiglia povera che lo aveva preso con sé veniva corrisposta una somma di denaro.
Per Pavese bastardo ha un significato profondo, quello di uomo che ha perso il senso della propria origine e che, dopo anni trascorsi a vagare nel mondo, torna nelle Langhe per ricercare un’identità non trovata oltreoceano. Anguilla riflette sulla sua condizione, sull’assenza di un luogo natale a cui sentirsi effettivamente legato
Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere” […] chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
La campagna immobile, il mutamento dei falò
Il protagonista compie il viaggio di ritorno grazie a Nuto, l’amico di infanzia che “scioglie i dubbi del protagonista e lo accompagna su per le colline, al riconoscimento, in una peregrinazione di conoscenza”, afferma Gian Luigi Beccaria nell’introduzione del libro. Una vera e propria figura paterna che, decidendo di restare nel paese, ha vissuto i cambiamenti conseguenti alla guerra partigiana.
Nel ritorno all’infanzia, Anguilla ripercorre le ataviche superstizioni, la primitiva cultura contadina, l’antica credenza che il risultato dei raccolti dipendesse dalla posizione della luna e dai falò. Prima di partire, credeva in queste superstizioni, ma, una volta tornato, le abbandona, sebbene abbia scoperto che la mentalità contadina non è cambiata: la guerra, la storia non hanno mutato il mondo immobile della campagna. Le stagioni si sono susseguite, ma la terra, le colline sono rimaste uguali. Solo i simboli infantili sepolti nella memoria hanno subìto una trasformazione: ne è prova evidente il falò, che da rito propiziatorio per la fertilità dei campi è diventato strumento di morte e distruzione, come nel caso di Santina, figlia del padrone per cui Anguilla ha lavorato in gioventù, uccisa dai partigiani che le diedero fuoco; o come nel caso del falò appiccato da Valino alla cascina dove ha trascorso i primi anni di vita. In tale contesto, i falò assurgono a simbolo del cambiamento del tempo dell’infanzia rispetto al presente, ormai ottenebrato dalla guerra e dal potere distruttivo della storia.
In tale senso, La luna e i falò riassume l’esistenza di Pavese, il desiderio di ritorno alle origini e i temi che lo hanno tormentato fino al gesto disperato del suicidio.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Presente e passato annodati
Il romanzo scorre tra presente e passato, tra memoria e contemporaneità, connessi sia sul piano simbolico, sia sul piano stilistico, attraverso la distribuzione dei tempi verbali e di eventi non ordinari cronologicamente. Il presente e il passato si accavallano e si annodano tra di loro grazie ai pensieri del protagonista che ricorda gli eventi trascorsi e li confronta con il presente. Pavese sceglie uno stile e una scrittura che non possono essere ricondotti del tutto al Neorealismo: sebbene sia presente il tema della guerra partigiana, quest’ultimo non è trattato da un punto di vista documentario ed oggettivo, ma è presentato attraverso la narrazione soggettiva del protagonista Anguilla. La sua grandezza sta proprio in questo: nell’avere saputo trasmettere i propri desideri, i propri tormenti, la propria visione del mondo attraverso uno stile narrativo fatto di episodi e parole, ma scevro da dialoghi lunghi e articoli.