C’è del sacro in… Don Chisciotte

Il capolavoro di Cervantes è il bestseller di uno scrittore occasionale, troppo raccontato e poco letto. I mulini a vento? Storielle decontestualizzate. Si tratta di un personaggio centrale e classico perché abbiamo enormemente bisogno della sua follia, del suo essere segno di contraddizione…

Tutti abbiamo sentito parlare di Don Chisciotte, delle sue “gesta” folli, del suo scudiero goffo ma anche assennato. Secondo me dovremmo fidarci un po’ più del personaggio e del suo Autore, e un po’ meno di ciò che ci è stato raccontato, e andarci a leggere di corsa il romanzo… Un romanzo porta dentro di sé un cuore pulsante che si realizza nell’essere raccontato. Ma quando viene raccontato troppo, e letto troppo poco, un romanzo smette di vivere; il suo cuore si ferma. E di Don Chisciotte, nella fattispecie, non rimangono che i mulini a vento. Storielle decontestualizzate.

Un primo autoritratto del suo Autore

E che direbbe mai il vecchio e coraggioso hidalgo spagnolo, lui che sui libri ci si è formato, lui che da essi ha ricevuto quella linfa capace di renderlo cavaliere? Beh… conoscendolo un po’ diremmo che come minimo lo considererebbe un gesto poco cortese, poco cavalleresco, quello di non andare a leggere il libro che parla di lui. Il Don Chisciotte della Mancia (1.536 pagine nell’edizione Mondadori), fin dalla sua origine, compie qualcosa di miracoloso: diventa un best seller nonostante il suo Autore faccia parte di quella schiera di scrittori occasionali, che scrivevano non per mestiere, e che magari vivevano al soldo di qualche mercenaria battaglia di ventura. La vita di Cervantes è certamente stata così avventurosa che a nessuno sfuggirebbe mai l’evidente intreccio tra questa e quella del personaggio “inventato”. Il che, senza bisogno di grandi sforzi psicologici, ci fa intravedere nell’impavido cavaliere della Mancia un primo autoritratto del suo Autore. E a distanza di anni, ancora, la forza di questo libro appassiona folle di lettori che non si accontentano certo della pagina raccontata, ma amano scendere molto più a fondo, riuscendo a scovare, tra le righe di questo scritto picaresco e satirico, ben più del semplice livello narrativo.

Il solito vecchio manoscritto

Anticipatore di altri illustri scrittori, anche Cervantes provvede fin da subito a creare un codice genetico di tipo storico al suo personaggio, facendo del suo racconto la risultante romanzata del solito vecchio manoscritto rinvenuto “per caso”, nel quale sono narrati fatti attribuiti a qualcuno storicamente esistito, che poi l’autore di turno trasforma nel proprio eroe. Lo ha fatto Cervantes. Lo farà Manzoni. Lo rifarà Eco, in modo decisamente più ironico, dicendoci finalmente che questa cosa del manoscritto è sostanzialmente una meravigliosa finzione (funzione) letteraria, insomma una bufala dalle buone intenzioni, che muggisce indispensabili prodromi. Ora, per carità… questa cosa non solo non ci scandalizza, ma addirittura ci piace, ci entusiasma! Un manoscritto “inventato” è letteralmente “trovato!”. L’invenzione dell’immaginazione umana è sempre una scoperta sensazionale! È sempre un eureka che esplode davanti alla necessità del “vero”, quando questo vuol mettersi a duellare col “reale”. Chi immagina non inventa: trova! Trova qualcosa che esiste già dentro di sé!

Irridere certa letteratura cavalleresca

E proprio in questa linea si struttura il Don Chisciotte, che chiamerei senza pensarci due volte come il primo tentativo metalinguistico della letteratura moderna. Perché? Perché innanzitutto è un libro che parla di libri, di come vengono letti, degli effetti che provocano in chi legge… E poi perché questo “parlare di libri” non assume per nulla toni saggistici, ma si impenna in un’eroica impresa romanzesca! Cioè, Cervantes decide di irridere giusto un tantino una certa letteratura cavalleresca, e per farlo sceglie l’identico genere letterario! Un libro che parla di libri, con lo stesso linguaggio di questi libri, e con una lingua così ricercatamente attenta a non tradire lo scopo, da essersi trasformata in quel castigliano che, ancora oggi, è detto lo spagnolo di Cervantes, come noi diremmo l’italiano di Manzoni!

Una specie di Sant’Ignazio al contrario

Nel Don Chisciotte, dunque, la letteratura cavalleresca non descrive gesta eroiche (se non apparentemente) ma solo se stessa! Cioè, soprattutto se stessa. Una letteratura che si toglie l’armatura e mostra le proprie ferite, le proprie contraddizioni e le sue fragilità. Ci fa vedere i suoi punti deboli, come per esempio la distanza già detta tra il vero e il reale: tra il “vero” del cavaliere senza macchia, e il “reale” del cavaliere tutto macchiato di sangue, come appunto Cervantes, reduce dalla battaglia di Lepanto e degente per più di due mesi in un ospedale di Messina. E proprio lì, stretto da uno Stretto, lui comincia a scrivere il suo Don Chisciotte, questo alter ego che “rinsavisce” diventando pazzo! Una specie di sant’Ignazio al contrario! Questo, anche lui ricoverato, un cavaliere che diventa santo! Un folle che diventa saggio! L’altro, lì a Messina, un saggio che diventa folle, per poi diventare nuovamente saggio, e nella forma più trasfigurata!

Quel gioco di immagini

Nel transfer tra lui e il suo personaggio, Cervantes descrive un “io” stufo di accontentarsi di modelli prestabiliti, e deciso a reinventarsi come un anti-modello, ma veramente eroico questa volta! Comincia quel gioco di immagini che è riuscito a confondere e depistare per centinaia di anni intere generazioni di lettori! È come quando ci guardiamo allo specchio: il nostro braccio destro diventa il sinistro, ma sappiamo che quel braccio sinistro in realtà è il destro. “In realtà”… E la verità? Cervantes si mette davanti allo specchio e crea l’immagine del suo Don Chisciotte, che è folle. Ma è un’immagine speculare! È un’immagine riflessa, oltre lo schermo del reale! Quindi, così come il braccio sinistro in realtà era il destro, così la follia di Don Chisciotte è in realtà pura saggezza: Demasiada cordura puede ser la peor de la locura, ver la vida como es y no como debería de ser. (Miguel de Cervantes).

E noi subito diremmo… Non era più facile parlare direttamente di saggezza, piuttosto che darle il sembiante della follia? Non rischiamo di confonderci?

Pensate a dei bambini che devono imparare a fare il segno della croce, e alla maestra che, per insegnarglielo, deve mettersi dinanzi a loro e farlo con la mano sinistra… Profanazione? No! Traduzione, incarnazione di verità attraverso il ribaltamento del segno! Segno di contraddizione!

Un segno di croce fatto con la mano sinistra

Cervantes ci ha donato Don Chisciotte come un segno di croce fatto con la mano sinistra, dove la follia corrisponde alla saggezza; dove l’armatura corrisponde alla vulnerabilità che i buoni ideali hanno nel mondo; dove i mulini a vento sono davvero giganti, e le pecore veramente “veri” nemici! Dove Dulcinea del Toboso viene doppiamente reinventata: prima dalla follia di chi la ama, e che dunque la vede come una principessa, e poi dalla “sapienza” di chi legge, che la fa risprofondare nell’abisso di una bettola… E Sancho Panza: l’immagine capovolta di quella che Battisti definiva con queste stesse parole: Troppe volte la saggezza è solamente la prudenza più stagnante! Insomma, il buon senso comune, quello che non scende mai veramente a patti con il senso di se stesso. Quel “senso comune” il cui senso più recondito è molto spesso la codardia e l’ignavia di chi non vuol combattere, a differenza di chi si fida, fosse pure di un impeto che il mondo sarebbe sempre pronto a considerare una passione da sciocchi… Un ideale a cui il mondo applicherebbe subito la desinenza -ismo.

Ma ritorniamo alla maestra, che può anche mettersi di spalle, e questa volta usare la mano destra. Ma anche in questo caso, la maestra non può consegnare tutto di se stessa! Prima ha dovuto rinunciare ad usare la mano giusta; ora che può utilizzare la mano giusta deve voltarsi!

Accidenti! Insomma, sembra proprio che il Segno della contraddizione, quello che illumina, quello che si impenna oltre le logiche sanchopanzesche del mondo, debba essere costretto a mostrarsi sub contraria specie per poterci insegnare la Verità, oppure, quando decide di mostrarsi, noi non riusciamo comunque a vedere la sua faccia. Come non vediamo quella della maestra…

Altro che pazzo… Tu sei pazzo, mica Don Chisciotte! Direbbe il geniale Caparezza…

C’è bisogno della follia di Don Chisciotte

Pazzo perché? Perché sfida se stesso provando a diventare ciò che è chiamato ad essere? Perché si inerpica nella salita di colle doloroso che lo vedrà schernito da pastori, contadini, duchi e soldati? Perché sceglie come apostolo un uomo ignorante, pavido e mondanamente pratico, come san Pietro? Perché nel corpo di una puttana è disposto a vedere la sua Sposa, che lui ama e deve salvare dalle brutture del mondo? Perché è disposto a riconoscere negli ingranaggi invisibili di un mulino la mente malvagia di un gigante che macina in silenzio senza che noi ce ne accorgiamo, come una multinazionale? O perché in un “pacifico” gregge di “innocenti” pecoroni è capace di scorgere il nemico vero dell’Occidente, che è l’inconsapevolezza, l’ignoranza e l’immobilismo del pensiero? È pazzo perché apre la gabbia dei leoni sapendo che possono sbranarlo, per poi vedersi irridere dalla belva, come l’Innocente davanti ad Erode? È pazzo perché rinuncia ai testi cavallereschi e diventa cavaliere, come uno che rinunciasse alle Scritture per diventare Vangelo?

Sì, certo. È pazzo. Il mondo non può che vederlo così.

Per questo c’è del sacro in Don Chisciotte. Perché c’è enormemente bisogno della sua follia, come i greci avevano bisogno di quella della Pizia.

Una logica diversa, collaterale, curva

Don Chisciotte è l’oracolo folle del mondo moderno, che alla fiamma di un malinteso lume ha forse bruciato quasi ogni forma di verità. La luce di una candela, come quella della ragione, può rischiarare solo una realtà apparente. Solo la luce della follia può mostrarci la verità che ci sta sotto.

Solo che la vera follia è una scelta. Don Chisciotte non diventa pazzo… sceglie di esserlo! Sceglie di “sragionare” per poter ricuperare la sua ragione, e le sue ragioni. Sceglie una logica diversa, collaterale, curva. Diventa scandalo per i credenti e stoltezza per i sapienti, e questo trasforma le sue battaglie in accadimenti di grazia!

Ma nel fare questo non sceglie la solitudine. Porta con sé quel servo, promettendogli un regno che quell’altro fraintende fin dall’inizio, un regno sulla natura del quale quel servo opera un’ermeneutica equivoca… Come sembra di vedere in quel Sancho Panza la madre dei due figli di Zebedeo, che si avvicina al Maestro e gli chiede una raccomandazione di gloria terrena per i suoi pupilli… senza capire che le promesse di regno riguardavano altre terre, altri luoghi, altri troni.

Anche Sancho non si aspetta nient’altro che un’isoletta su cui regnare tranquillo, e che poi non avrà (beninteso!) neanche il coraggio di accettare! Perché non ci si improvvisa regnanti… Ci si diventa… E lui è ancora uno scudiero, e ha scelto di rimanere tale per tutta la vita. Non vorrà mai intraprendere la strada del cavaliere, e diventare poi un signore. Anzi… quante volte si mette di fronte a Don Chisciotte, per dissuaderlo dal voler compiere le sue imprese! Quante volte rimuginerà sulla follia del suo signore, e noi insieme a lui…

Grande Cervantes!! Scrivendo quelle pagine ha descritto noi, accanto a Sancho Panza, a deridere le imprese di un “vero” ed “irreale” cavaliere. Ha trasferito quella follia a noi, e ci ha fatto dire la classica frase dei pazzi: “Noi non siamo pazzi!”

Dal sorriso al compatimento, all’elegia

Sapete? Cervantes ha scritto una prima parte di questo libro, e c’ha messo 34 anni. Poi qualcuno ha cercato di fare un sequel, che a lui non è piaciuto affatto. E così, dieci anni dopo, ha scritto la seconda parte. A noi il romanzo è arrivato tutto intero, quindi non ci accorgiamo di certe differenze… Ma ci sono. Potremmo dire così: nella seconda parte del libro, Don Chisciotte supera il suo stesso ruolo-simbolo e comincia a diventare più chiaro… Si comincia a pensare che forse, nella descrizione di questo personaggio, Cervantes non avesse poi una finalità così tanto comica…

Il Don Chisciotte lo si comincia a leggere con un sorriso sulle labbra, come quando ci si rallegra della nascita di un bambino. Poi il personaggio comincia a diventare problematico, come un ragazzino che si mette a discutere con delle persone che ne sanno ben più di lui (e che di questo si convincono). E infine diviene quasi un vero eroe, un folle che credeva davvero di essere il difensore della verità, come un uomo pieno di ideali che poi muore; e tutti lo compatiamo, e magari poi, però, ci lasciamo uscire dalle labbra parole del tipo: “Vabbè, dai, era pazzo; ma merita un po’ di rispetto perché in fondo ci credeva, ed era un brav’uo­mo.”…

La fine di Don Chisciotte è raccontata in modo strano, tra il compatimento e l’elegia.

Crocifisso all’apatica tranquillità

Un uomo che è stato riportato a casa sua, che è stato spogliato della sua armatura (ma nel capovolgimento letterario un’armatura può diventare una nudità!) e che è stato costretto a spegnersi “tranquillamente” nel suo caldo lettuccio. Don Chisciotte viene crocifisso all’apatica tranquillità di un mondo che non è riuscito a capirne la grandezza! Quello il suo vero martirio, l’ultima sua prova di cavaliere. Ha perso tutto! Il suo cavallo, le sue armi, ma non il suo sogno…

E l’amata per cui ha così tanto combattuto? Lì, accanto a lui, essa non c’è. È via, da qualche altra parte. Però, anche in quell’ultimo istante, egli la pensa. Ed è sempre pronto a liberarla, a proteggerla, ad amarla fino a dare la vita per lei!

E così, con le sue ultime parole, l’hidalgo ci consegna il suo testamento da cavaliere, tessendosi un epitaffio che, come minimo, Cervantes consegna alla nostra interpretazione, fidandosi nonostante tutto della nostra capacità di volere, almeno per una volta, trasfigurare la realtà: «Giace qui il forte Hidalgo salito a tal grado di valore, che morte non poté trionfare di lui nel suo morire. Affrontò tutto il mondo e vi recò lo spavento; e fu sua ventura viver pazzo e morir rinsavito. Via, gente perversa, che nessuno mi tocchi; perocché questa impresa, o buon Re, era serbata a me solo!». Sì, tutto è compiuto.

La morte non trionfa sull’hidalgo…

Visse pazzo per morire sano di mente, e tutti gli astanti, e noi pure, avremmo pensato che Don Chisciotte, almeno nell’ultimo istante di vita, si fosse reso conto delle sue cazzate e avesse riconquistato il senno… Ma no, certamente!… Lui descrive pazza la sua vita precedente, quella in cui leggeva e leggeva, come tante volte facciamo noi, senza però avere il coraggio di essere “il libro di noi stessi!”. E considera “savia” la vita successiva, quella in cui tutti lo dicevano folle. Non dimentichiamoci che Cervantes mantiene fino alla fine l’intento di demistificare la sacralità della letteratura cavalleresca… Figuriamoci dunque se avrebbe mai permesso al suo Don Chisciotte di fare quello che aveva fatto Orlando! Quest’ultimo era salito fin sulla luna per ricuperare il senno, il lume della ragione. Don Chisciotte, invece, si riappropria alla grande della sua follia! E il senno lo lascia lì dov’è, sulla luna. Così gliene arriva quel po’ che basta ai cavalieri e ai poeti. Per uno come Don Chisciotte la luna è già una forma di ragione.

E poi l’ultima frase… Noli me tangere, gente perversa, senza sogni, senza ideali, senza aspirazioni trascendenti… gente incatenata al ridicolo dell’apparente. Nessuno mi tocchi! Questa impresa era serbata a me solo! E chi di noi l’avrebbe creduto? Don Chisciotte era apparso così, senza apparenza di bellezza tale da attirare i nostri sguardi, senza splendore per poter trovare in lui un qualche diletto… Perché per noi lo splendore, spesso, è solo ciò che ci fa divertire… Se magari ci ha strappato qualche sorriso, ok… ma certo non ne avevamo alcuna stima cavalleresca, e lo consideravamo pazzo. Coprendoci la faccia nel peggiore dei modi, che non è quello di difendere gli occhi da un’immagine drammatica, ma mettersi il palmo della mano sul viso, nella celebrazione di una benevolente commiserazione. Eppure si è messo addosso tutto il peso di un’armatura, che luccicava della nostra stessa nudità, e si è messo a cercare, tra di noi, la sua Dulcinea, per farla sua Sposa… E nella sua battaglia contro noi pecore, era l’unico agnello muto, condotto dinanzi ai suoi lettori. Non gli si diede sepoltura coi cavalieri. Morì su un comodo letto.

Tutto è capovolto, come in uno specchio.

Sapete cosa significa hidalgo? Questa parola, nel contesto dei racconti cavallereschi, era usata per descrivere un qualche personaggio di nobile lignaggio, appartenente però ad un’aristocrazia popolare, non canonica, non ufficialmente riconosciuta.

Insomma, un hidalgo era un nobiluomo, un uomo di nobile stirpe, figlio di qualcuno di importante, ma senza blasoni. Questa parola viene usata sempre per descrivere Don Chisciotte.

E sarebbe la contrazione della seguente espressione: Hijo de alguien… figlio di Qualcuno…

Chissà… magari anche Figlio di Dio.

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