“Il denaro” di Emile Zola scandaglia il malmostoso e avido universo di azioni, obbligazioni, potere, miseria e dolore. Protagonista Saccard, spericolato speculatore alle spalle di piccoli risparmiatori. Nella convinzione che«il lavoro non può fare vivere. Solo i poveri e gli imbecilli lavorano, per ingrassare gli altri…»
Quando la finanza possa essere furfante e cinica, altalena di pericoli, affossatrice di patrimoni, predatrice dei poveri, culla di lestofanti, fucina di bugie e dispensatrice di lutti, il lettore lo sa bene e non solo perché da un paio di secoli è materia di cronaca. Anche la letteratura si è occupata di questo sulfureo argomento; in maniera profonda e avvincente da quando, precisamente, quello scrittore sinistrorso (con occhialini, baffi e pizzetto) che fu il caposcuola del naturalismo, a Parigi diede alle stampe L’Argent, Il denaro.
Vite minuscole e lupi affamati
Emile Zola – grande figura delle lettere europee mai sufficientemente riverita e calcolata; l’artista che sull’uscio del Nocevento diventò il prototipo dell’intellettuale impegnato, con la presa di posizione nell’affaire Dreyfus -, Zola per l’appunto, col diciottesimo volume del ciclo dei Rougon–Macquart (1891) ha scandagliato quel malmostoso, oscuro, contorto e avido universo fatto di azioni, obbligazioni, titoli, potere, sgambetti, rappresaglie, ripicche, ritorsioni, punizioni, miseria, dolore. Sì, dolore. Perché il mondo descritto dall’autore dell’Assommoir è un corpo tenuto vivo dall’ambizione, dalla vendetta, dal desiderio di rivincita, dall’ossessione a che periodicamente crolla, cade, rovina: tutto ciò a cosa può portare, se non alle lacrime e alla disperazione? Come la risacca dopo una mareggiata, trascina a fondo le vite e le speranze di piccole esistenze, di quelle vite minuscole che mettono da parte, soldo su soldo, un gruzzolo che affidano inopinatamente a lupi affamati.
Lucida profezia
Una lucida profezia ha guidato la mano di Zola in questo volume apparso per la prima volta in Italia nel 1891 e quest’anno meritevolmente riproposto da Sellerio (pp. 604, 16 euro, a cura di Fabio Grassi). Ah, quanto le vicende dell’ambizioso Aristide Saccard somigliano da vicino a quelle che nelle vita vera, e in epoche recenti, si riassumono con questi nomi: Lehman Brothers, Parlamat, Antoveneta, Parmalat, Motepaschi, Cirio, Banca Etruria.
Un dorato squallore e i suoi complici
Siamo nella Francia di Napoleone III, nell’anno dell’Esposizione universale. Parigi è in fermento, le strade ribollono di attività e di energia. È in questo contesto che Saccard, che medita la sua occasione per imporsi nel mondo dorato della finanza, escogita il suo piano. Con madame Caroline (amante, confidente, amica e cattiva coscienza) al fratello di lei Hamelin progettano sontuosi lavori da effettuare in Medio Oriente, sulla scia della costruzione del Canale di Suez. Lo fanno attraverso i fondi di piccoli risparmiatori raccolti dalla «Banca Universale». Ma il compulsivo gioco al rialzo, la tensione accumulata verso l’obiettivo irraggiungibile di una stratosferica valutazione delle azioni, nella trama del racconto si sollevano come uno tsnunami. E il lettore percepisce pagina dopo pagina quale disfatta, quale disastro, quale abisso rischia di spalancarsi a ogni nuovo arrischio di Saccard. C’è, in questo dorato squallore, anche la complicità di un giornalismo che non racconta la verità; la compiacenza dei controllori; la corruttibilità di un mondo che pensa solo a correre e non contempla nemmeno un po’ la carità, come fa la ricchissima principessa D’Orviedo la cui unica missione sembra quella di «soddisfare i miserabili» pur detestando il denaro che però è «il letame da cui sarebbe nata l’umanità del domani».
Il gioco e la speculazione
È tutto un frullare di scambi, un ricamare di sporche alleanze, un soffiare sulla maldicenza, l’universo che si muove sotto gli occhi del lettore e popolato di «violenti appetiti e di prodigalità folle». Al ritmo dei calessi che scivolano sull’acciottolato parigino ai margini della Borsa, emerge la filosofia vera, unica, inscalfibile a presidio del denaro movimentato dalla finanza. E cioè che «il lavoro non può fare vivere. Solo i poveri e gli imbecilli lavorano, per ingrassare gli altri. C’era solo il gioco, il gioco che, dalla sera alla mattina, dà di colpo il benessere, il lusso, la grande vita, la vita intera». Ed è inutile, sembra dirci il beffardo Saccard, che riesce a farla franca sfuggendo alle responsabilità – anche questo è un paradigma dei giorni nostri – , è inutile criticare L’Argent, il suo argent. Perché «senza la speculazione non ci sarebbero le grandi imprese vive e feconde, così come non ci sarebbero bambini senza la lussuria».