Esilio e malinconia, più che impegno e lotta, nell’inquieto romanzo dello scrittore di origine marocchina Fouad Laroui, ancora inedito in Italia. In un mondo dove stupidità e ignoranza non hanno una nazionalità prestabilita, sembra di sentire la voce del Candido volteriano che però ha perso l’innocenza
Uno dei più grandi studiosi della letteratura del Maghreb, Jean Déjeux, affermava qualche anno fa che una delle tipologie che meglio rappresentano il romanzo maghrebino è quella autobiografica, in cui l’io narrante fa spesso fatica ad emergere e ad affermarsi, a causa del ruolo della società, con le sue soffocanti tradizioni antropologiche e sociologiche. Tale affermazione è quanto mai vera per dei territori che storicamente hanno vissuto la colonizzazione francese e che si sono trovati a dover fare i conti con una cultura lontana dalla loro.
Le mancate corrispondenze
Da un lato la società, quindi, dall’altro la presenza dello “straniero”: due poli che rendono complicata la ricerca di una propria identità e a volte la condannano al fallimento, come accade al protagonista del romanzo Les dents du topographe – pubblicato da Julliard nel 1996 – dello scrittore di origini marocchine Fouad Laorui, di cui in Italia l’editore Del Vecchio ha pubblicato altri due suoi libri. Le condizioni sociali, le differenze tra la cultura marocchina e quella occidentale, il crollo dei sogni di giustizia e legalità, la mancata corrispondenza tra il mondo studiato nei libri – occidentali anche quelli – e la realtà, complicano per Laroui la definizione della personalità e del ruolo del protagonista, il quale non riesce a sopportare il mondo assurdo in cui si trova a vivere e finisce, dopo qualche tentativo di fuga e ritorno in patria, con l’abbandonare per sempre il Marocco e rifugiarsi in esilio volontario a Parigi.
Uno straniero in casa propria
Primo di una trilogia di cui fanno parte De quel amour blessé e Méfiez-vous des parachutistes, che trattano altri due temi cari allo scrittore, la tolleranza e l’individuo, Les dents du topographe è un vero e proprio romanzo di formazione che si sviluppa attraverso un’analisi à rebours degli eventi determinanti della vita del narratore, personaggio inquieto e senza nome. Egli è un giovane cresciuto nella Missione universitaria e ”kulturale” francese, nutrito di cultura occidentale, che non conosce l’arabo – unico della sua famiglia – il cui torto più grande è l’incapacità di adattarsi all’irragionevolezza della sua terra. Agli occhi degli altri il protagonista appare, infatti, come un disadattato, uno straniero in casa propria. Ogni capitolo è costituito da un racconto di un episodio, percorso dalla cifra stilistica dell’autore che è l’ironia, episodio che puntualmente si conclude con un fallimento: della legalità contro l’illegalità, dell’io contro gli altri, della ragione contro la superstizione. Il mondo descritto da Laroui non dà nessun appiglio alla ragione, è paradossale e assurdo. La legge è un fantoccio i cui abiti vengono vestiti da personaggi panciuti e baffuti, dallo sguardo ebete e dalle pratiche truffaldine, come Asslane – politico che conduce un’inchiesta contro il narratore per un tentativo di colpo di stato – il quale, grazie ai venti chili presi dalla sua elezione a deputato, è «riuscito a realizzare la sua caricatura». La politica è fatta di corruzione, favoritismi, crimini, fatta soprattutto da gente ignorante che non ha mai letto Platone, Montesquieu o Tocqueville. Le ideologie sono calpestate o banalizzate, come accade al nome di Mao Tse Tung, deformato in «Maosé TONG TONG TONG» e trasformato in una sorta di mantra ripetuto fino all’esasperazione e che aiuta gli amici disoccupati del protagonista a entrare in trance e a fuggire per qualche tempo alla realtà fatta di sogni delusi e aspettative tradite.
La realtà difforme e mistificata
La falsità, la dissimulazione, la mistificazione e l’ignoranza sono gli elementi di una sorta di paradigma della menzogna che regge tutto il romanzo. Tutta la realtà è difforme, falsa, mistificata. Come l’idea dell’Occidente percepito come un Eden in cui il denaro scorre a fiumi, dove si scorrazza in Cadillac, si vive nei ranch della serie tv Dallas e si sogna di andare a letto con Sue Ellen. O come quando le pietre usate dal narratore per il suo barbecue improvvisato sull’erba, vengono scambiate una settimana più tardi dagli abitanti del luogo per la testimonianza di un altare sacro dove un tempo sarebbe avvenuto un miracolo. Dall’altare a “San Picnic” alla nascita di una religione o di una civiltà fondata su una mistificazione il passo è breve. Tutta la comunità intorno al protagonista è imbrigliata nella superstizione, è governata dalla stupidità, dall’ignoranza causa di tutti i mali di un popolo che non conosce i suoi diritti, che si fa governare da inetti, che crede che una donna, la sorella del narratore, sia posseduta dal diavolo perché non vuole sposare un uomo che non ama; ignoranza che permette persino che si bandiscano concorsi pubblici vinti da chi paga e non da chi merita. In un mondo governato dall’ignoranza è impossibile applicare alcuna logica.
Superata la banalità dell’opposizione Maghreb-Occidente
Beninteso, il mondo creato da Laroui, diventa rappresentazione simbolica di un luogo che potrebbe trovarsi dappertutto. Ecco perché il romanzo supera la banalità dell’opposizione tra Maghreb e Occidente, poiché la stupidità e la menzogna non hanno una nazionalità prestabilita. Persino la Francia, fiera e cosciente di essere un paese superiore a quelli che ha colonizzato è presa in giro: Durand, professore di francese alla Missione, confonde, ad esempio, la madeleine proustiana con una dei personaggi della Recherche. Non solo: anche La Missione, baluardo della cultura, è fonte di realtà distorta. Essa è infatti il luogo in cui s’insegna dalla prospettiva eurocentrica del colonizzatore, dell’oppressore: «I Saraceni eravamo noi! Ma nessuno ce lo diceva, e noi piangevamo Orlando, al suono del corno».
Un “Icaro inverso”
Di fronte alla menzogna travestita da realtà, le reazioni dei personaggi del romanzo sono diverse, ma tutte drammatiche: Zahri, il professore di Logica, brucia i libri sui quali si è formato, poiché essi non gli hanno dato i mezzi per fuggire all’assurdo; Nagi, amico del narratore, dopo aver lottato invano per cancellare i suoi natali arabi muore in Francia, terra alla quale si sentiva di appartenere più che a quella d’origine. Raouf, altro amico del protagonista, si suicida poiché non è capace di vivere nell’angoscia di un mondo senza certezze. Di fronte alle sorti avverse dei suoi amici, dei suoi «fratelli perduti», come li definisce usando un verso di Paul Éluard, il narratore si chiede se non sia lui stesso un disadattato. Egli adotta allora la soluzione temporanea di tuffarsi nel reale come un “Icaro inverso”, le cui ali sono state arse dalla menzogna, e cercare di vivere in un mondo osceno e mistificato. Ma non riuscirà a sopportarlo: l’ultimo capitolo, eponimo del romanzo, è la chiave di tutto.
Nella miniera in cui il narratore si è deciso a lavorare, un topografo si uccide: ingiustamente accusato di essersi presentato ubriaco al lavoro, prima di compiere il gesto che metterà fine alla sua vita, appoggia sulla scrivania del narratore i denti che si era strappato perché malati e che aveva cercato di curare con dell’alcol. Nel linguaggio dei simboli, se i denti sani rappresentano la potenza, quelli malati simboleggiano l’impotenza, che passa dal topografo, il quale non può più difendersi dalle accuse del padrone, al narratore, incapace di cambiare il disordine delle cose nella sua terra e indirettamente colpevole della stessa morte del topografo per averlo ingiustamente licenziato. Il narratore conserverà quei denti, come una sorta di memento contro la nostalgia e il desiderio che potrebbe manifestarsi un giorno di ritornare nella sua terra. Il silenzio, l’anonimato e il reale costituito dai libri sono l’antidoto contro il tentativo di entrare nuovamente in un altro reale che invece si è rivelato finto e latore di morte.
Desacralizzati miti, tradizioni e leggi
Per Laroui, che ha percorso alcune delle tappe del suo protagonista – marocchino di origine, formatosi presso la scuola cristiana del suo paese, ha continuato gli studi in Francia e Inghilterra; insegna da diversi anni presso l’università di Amsterdam – la ricerca dell’identità si fa veramente difficile, poiché bisogna scorgerla tra le trappole della mistificazione e dell’ignoranza. Per cercare di annientarle o perlomeno di attenuarle, lo scrittore usa l’ironia: mescolata tra le pieghe del racconto, essa desacralizza i miti, le tradizioni, le leggi, le convenzioni. Sembra di sentire la voce del Candido volteriano che però ha perso l’innocenza. La sola possibilità che il narratore scorge e che sceglie è la fuga. I temi affrontati, la sovrapposizione dei piani narrativi, il movimento temporale al quale corrispondono spesso movimenti nello spazio, oltre che ai temi affrontati, fanno de Les dents du topographe un romanzo inquieto, che propone una definizione dell’identità al negativo: non nell’impegno, nella lotta, nel lavoro, nei contrasti con un mondo pigro, statico e incapace di liberarsi delle costruzioni che si è creato, ma nell’esilio e nella malinconia.
Bellissima recensione. Fa venire voglia di correre in libreria e acquistare il libro!