“Tutto è possibile” è un libro fratello di “Mi chiamo Lucy Barton”, con una struttura che richiama “Olive Kitteridge”. I protagonisti sono accomunati dal dolore. Nello sguardo di chi narra non c’è un giudizio, ma compassione e grande empatia
C’è un richiamo esplicito a Mi chiamo Lucy Barton nel nuovo libro di Elizabeth Strout, Tutto è possibile (216 pagine, 19 euro) uscito per Einaudi, ed è un doppio aggancio narrativo e metanarrativo insieme, che il lettore ritrova da una parte nell’ambientazione e nel sistema dei personaggi, dall’altra nella narrazione stessa, come parte dei fatti. Non si tratta di un sequel, piuttosto di un libro fratello, che al precedente è legato in quanto ne riprende volti e nomi, ricostruendo intorno a tutti le relative storie, approfondendole e portandoci da New York di nuovo ad Amgash, cittadina del Midwest dalla quale proviene Lucy Barton. Un personaggio che – il lettore fedele della Strout lo sa già in partenza – arriva da una realtà di povertà estrema dalla quale si è riscattata diventando scrittrice. Di questa carriera ci sono echi e richiami in Tutto è possibile, nelle cui storie torna diverse volte la presenza concreta del romanzo stesso di Lucy Barton, curiosamente accompagnato da una copertina su cui svetta un grattacielo illuminato (proprio come nel libro vero della Strout, Mi chiamo Lucy Barton) e in cui torna anche la stessa scrittrice, colta in un ritorno a casa dal fratello Pete e dalla sorella Vichy.
Tra romanzo e short story
Ma se il precedente era un romanzo-memoir, come è noto, grazie all’espediente metanarrativo, sia al lettore che agli stessi abitanti di Amgash, questo nuovo lavoro dell’autrice americana è invece una forma ibrida tra romanzo e short story, sulla scia della struttura che la Strout aveva pensato e costruito per Olive Kitteridge. Non c’è infatti un’unica storia filo conduttore, con i suoi protagonisti, personaggi ancillari e il suo arco narrativo unitario, bensì una sorta di costellazione di storie, ciascuna dedicata a un personaggio di quella comunità del Midwest dove è cresciuta la stessa Lucy Barton. Ogni personaggio è legato agli altri da snodi – parentele, legami, conoscenze, o semplici incroci fuori da un negozio, a una presentazione – che dipingono l’affresco di una cittadina di provincia dell’Illinois e della comunità che la vive. La geografia non ha un ruolo di mero scenario, ma connota il clima e accompagna il temperamento dei personaggi di cui via via sono affrontate debolezze e traumi passati: cieli infiniti e immensi campi di grano che al contempo descrivono una provincia dai confini stretti, un tetto pesante che grava addosso, ma che allargano il cuore, la vista, lo spazio per le possibilità che, in fondo, come suggerisce il titolo, riescono ad affrancare tutti.
Un microcosmo tra sofferenze e gesti orribili
Sarà così per Lucy, che torna dopo anni a casa del fratello Pete, dove viene raggiunta dall’altra sorella, Vichy, ma anche per Tommy, l’anziano bidello, che nella sua esistenza felice con la moglie trova il tempo per ripensare alla povertà della piccola Lucy, che passava le ore a scuola per poter godere del caldo che a casa non aveva. E ancora Abel, la sua famiglia forse non del tutto appagata nonostante la carriera e i soldi che lo hanno portato a evolversi, da ragazzino che frugava nella spazzatura per mangiare a distinto professionista con abiti tagliati su misura, e Dottie, la sorella che gestendo un bed and breakfast parla con le persone, ne scruta l’anima, spesso ne coglie le doppie facce, le insicurezze. Le debolezze abbondano tra questo insieme di personaggi, un microcosmo coerente e compatto dove la penna di Elizabeth Strout ci accompagna, spolverando vecchie soffitte, scoprendo con delicata spietatezza quelli che non sono capricci ma più spesso pesanti umiliazioni, sofferenze psichiche, violenze domestiche, gesti efferati e orribili.
Osservare e scavare, senza puntare il dito
È una galleria di volti di personaggi contro i quali, tuttavia, mai viene puntato un dito accusatorio. Con la maestria di una narratrice premio Pulitzer, la Strout si limita a osservare, a scavare e ricercare dinamiche, atteggiamenti, pieghe dell’animo umano formate in mezzo a imprevisti la cui natura può persino deflagrare contro quanto ci aspetteremmo, contro il senso comune. Sono storie intessute intorno al non detto, alla vergogna di un passato lontano ma mai così neutrale da potersi dire cancellato e assolto, intorno al dolore che per alcuni personaggi, e Charlie Macauley ne è forse l’esempio più profondamente umano, esplode nella sua incapacità di dirsi, di prendere forma.
Dolore, compassione ed empatia
Eppure, quel dolore è forte, e tocca tutti i protagonisti di questa narrazione accomunandoli sotto un cielo vasto come quello del Midwest, e per questo ancora ricco di sogni, speranze, e possibilità. Tutto è possibile, è così che si chiude questa storia, dando dignità di esistenza all’altra faccia di quella pesante veste di difficoltà e indigenza in cui vediamo immersi molti dei protagonisti: la compassione, nel suo senso etimologico di vicinanza, empatia. Capire gli altri, entrare nei loro pensieri, soppesarne il disagio, confrontarsi con la loro umiliazione, la loro vergogna, la loro solitudine. È un atteggiamento ricorrente tra le voci che la Strout intreccia, piccole esistenze di provincia che, affacciate sulla rete così fitta e densa dei nodi relazionali, dei dispiaceri e degli ostacoli che la vita genera, in questo libro si scoprono, a dispetto di tutto, spalancate sull’umanità intera. E diventano allora sussurri di consolazione, spesso privati, minuscoli, forse impercettibili, eppure vivi, ancora, nonostante tutto.