Lo scrittore salentino de “Nella perfida terra di Dio” (Adelphi) oscilla tra grandi classici e romanzi recenti per fissare una mappa di libri da leggere. E ce li consiglia spassionatamente, con trasporto e con la sua lingua febbrile
“Lo sfidante (Million Dollar Baby)” di F.X. Toole (Garzanti)
«La boxe è un atto innaturale». Inizia così, semplice e diretto come un jab, uno degli straordinari racconti di F.X. Toole, irlandese d’origine, ex allenatore di pugili che nel 2000 ha raccolto in Lo sfidante (poi riedito da Garzanti come Million Dollar Baby dopo che Eastwood ne trasse il premiatissimo film) alcune delle sue prelibate storie di ring. Nato a Long Beach nel 1930 e scomparso in California nel 2002, F. X. Toole studiò recitazione alla Neighborhood Playhouse di New York guadagnandosi da vivere come lustrascarpe, tassista, barista e torero. Da sempre innamorato della boxe, non è mai stato un pugile professionista: ha iniziato a boxare quando aveva ormai oltrepassato la soglia dei quarant’anni, per pura passione. E da allora sul ring ha fatto di tutto: ha indossato i guantoni, ha vinto e ha perso, ha fatto l’allenatore, il massaggiatore, il secondo e il fermasangue, ha rincuorato i suoi pugili tra un incontro e l’altro, ha asciugato il loro sudore e ha tamponato le loro ferite, li ha sentiti soffrire, li ha visti trionfare e li ha soccorsi quando erano stesi al tappeto. Prima di morire affermò con incontrovertibile sicurezza che il pugilato per lui aveva smesso da tempo di avere segreti: l’autore ne conosceva a menadito tutte le tecniche, la storia, le sensazioni, ma anche i trionfi, le sofferenze, i trucchi, le combines. Nei racconti di Toole si disvela l’eccezionale carico di furore atletico che anima il quadrato del ring, dove il pugile è solo a confrontarsi con l’avversario e col proprio dolore. Ma anche tutto ciò che gli si agita attorno, prima e dopo il match. Soprattutto, Toole ha scoperto (forse più di Hemingway e Mailer, che pure seppero farsi cantori di questo tragico, straordinario sport) che sotto il ring si respira una irripetibile magia: la magia delle storie di vita sature della forza e della miseria che sono capaci di muovere gli esseri umani quando non hanno nulla da perdere – e tutto da guadagnare.
“Trilobiti” di Breece DJ Pancake (Minimum Fx)
Il grande Kurt Vonnegut, qualche anno prima di lasciarci, disse di lui: «Ti do la mia parola d’onore che si tratta dello scrittore più sincero che io abbia mai letto. Quello che temo è che questo gli abbia dato troppo dolore, non c’è nessun divertimento a essere così bravi. Ma né tu né io lo sapremo mai». Queste invece sono le parole di Roberto Wilson: «Un racconto come Trilobiti, che contiene così tanta conoscenza, che esplora il suo soggetto così bene e su così tanti livelli, deve averlo invecchiato come scrittore, deve avergli fatto sentire che aveva utilizzato tutto ciò che sapeva. È impossibile non ammirare, e invidiare, lo scrittore al lavoro su questi racconti». Anche Joyce Carol Oates e Philip Roth dispensarono giudizi pieni di ammirazione sul suo lavoro. E Bono Vox degli U2 lo trovò vivido e commovente. Stiamo parlando di Breece DJ Pancake, autore statunitense di vibrante intensità poetica che si tolse la vita il 7 aprile 1979. Non aveva ancora 27 anni. Di notte entrò in una casa vicino al suo appartamento e là, al buio, si sparò. Aveva scritto un libro di dodici racconti, che in Italia Isbn ha pubblicato una cinquina d’anni col titolo, appunto, di Trilobiti. Nelle sue pagine sfila una Spoon River dei Monti Appalachi (nord-est degli Stati Uniti, al confine col Canada), luoghi periferici di un’America che non conviene mostrare, una piccola nazione sghemba e scordata (nel senso letterale di strumento non accordato) che le cronache preferiscono eludere per non offuscare l’immagine vincente della Grande Madre. Allevatori di bestiame, pugili, ragazzine che già percorrono la Highway to Hell, spostati, cacciatori che scuoiano procioni e cerbiatti. E che vivono alla meno peggio una esistenza alla deriva di cui viene colto ogni gesto, ogni sfumatura. La paura anzitutto («Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione d’anni»). Ma soprattutto la morte, declinata attraverso la vita in tutte le sue minute manifestazioni («Mi fermo davanti alla stazione dei pullman, dentro guardo le persone che aspettano (…) ma so che non riusciranno a scappare o che non sarà una sbornia che li tirerà fuori di lì, o che non sarà la morte a liberarli da tutto»).
“Acqua Nera” di Joyce Carol Oates (Il Saggiatore)
Perché non approfittare della stagione estiva per rileggere un must di una grandissima (e per fortuna prolificissima) scrittrice come Joyce Carol Oates? 4 luglio, metà anni ’90. Grayling Island, Maine. Una Toyota nera corre a tutta velocità. È notte e gli alberi riducono la visibilità. Al volante un senatore degli Stati Uniti, uomo grande e rassicurante, guidatore aggressivo e alticcio, macina la strada con aria decisa: gli restano solo pochi minuti per raggiungere il traghetto che porterà lui e la giovane Elizabeth “Kelly” Kelleher, appena conosciuta nel corso di un esclusivissimo party, verso la terra ferma. Poi, una curva, gli pneumatici perdono aderenza, l’auto impazzita esce di strada, sprofonda nell’acqua nera dell’Indian River. L’uomo riemerge dalla palude e si salva. Ventisei anni, una laurea in Storia americana, una ricerca sulla figura del Senatore, Kelly Kelleher perde la vita. Da questo episodio di cronaca che sconvolse l’America (l’uomo era Ted Kennedy, la ragazza la sua giovane segretaria), Joyce Carol Oates ha tratto un romanzo intenso, una storia che scorre nei minuti in cui Kelly, intrappolata nell’auto, ripercorre per rapidi lampi le ore precedenti l’incidente e la sua intera esistenza. La coscienza abbandona la ragazza, le immagini le affollano la mente mescolandosi e correggendo la sua imprecisa visione della realtà. Ricordi e riflessioni, impressioni e brani di dialogo si alternano in una serie di schegge sempre più confuse. Attorno a questa cupa istantanea, reiterata senza pietà capitolo dopo capitolo, Joyce Carol Oates assembla un quadro brutale della tracotanza del potere e della politica.
“Non si fruga nella polvere” di William Faulkner (Einaudi)
«…è un’idea che riguarda un mistery originale, poiché a risolvere il complotto vi è un negro, in prigione per assassinio e sul punto di essere linciato, che spiega l’assassinio per autodifesa» così nel 1940 William Faulkner raccontava al suo editore descrivendo la storia cui stava lavorando e che sette anni più tardi vide finalmente la luce con il bel titolo Intruder in the dust, da noi Non si fruga nella polvere. E l’intreccio poliziesco, all’epoca decisamente in auge (persino più di adesso!), nelle mani del grande scrittore sudista si tramuta in un diapason delle tematiche che hanno ossessionato tutta la sua corposa produzione letteraria: il rapporto tra neri e bianchi, la decadenza della vecchia aristocrazia, il progresso che avanza macinando inarrestabile la tradizione e con essa i valori che le si accompagnano. Lucas Beauchamp, nero accusato di omicidio, si mette a fiutare le prove della sua innocenza ricorrendo all’aiuto di un ragazzo bianco, Chick, al quale ha un tempo salvato la vita (strepitosa la scena in cui il ragazzino vorrebbe dare del denaro al negro per non essere in debito con lui, e l’uomo, assolutamente avverso alla convinzione inveterata che quella cui appartiene sia una razza inferiore, lo ripaga facendogli dei regali, da pari a pari). Su tutto la mirabile compattezza narrativa fornita dalla sontuosa scrittura di Faulkner, straordinariamente ricca di tensione e afflato poetico, articolata, mutevole e musicale, qui in una delle sue prove più affascinanti e complesse…
“Il cielo è dei violenti” di Flannery O’Connor (Einaudi)
«Sapeva di avere la stoffa dei fanatici e dei pazzi, e di esser sfuggito al suo destino quasi con la sola forza di volontà. Si teneva ritto su una linea sottilissima, tra la pazzia e il vuoto». Una fede intrisa di fanatismo bieco, vissuta quasi come un’ossessione, e una ragione sterile e repressa, «spazio nudo e lindo come la cella di un manicomio»; sono questi i due poli opposti entro cui la troika di personaggi de Il cielo è dei violenti muove passi estremi, inquieti e disperati. Sotto un titolo che cita il Vangelo di San Matteo, Flannery O’Connor scolpisce tre spettacolari figure: un vecchio eremita sbroccato che predica la sua religione fondamentalista al deserto silvestre che lo attornia e al ragazzino che ha praticamente rapito (e plagiato), costringendolo a condividere con lui la solitudine dei boschi; il ragazzo, appunto, un imberbe convinto di possedere la capacità di ribellarsi ma che in realtà è stato completamente soggiogato dalla follia dell’anziano; e un giovane insegnante razionalmente, integralmente laico, zio del ragazzo e parente dell’eremita, che vive in città e ha perso ogni speranza di recuperare il nipote. Fino al giorno in cui il vecchio muore, salutato dal ragazzo con una catartica pira, e questi arriva alla porta dello zio. Nel sangue di questi tre uomini si annida il seme di un’unica ossessione, scorre la paura, si avverte il mistero di un’esistenza che pare impossibile comprendere (e accettare). Mary Flannery O’Connor (1925-1964), annoverata tra i narratori più importanti del Novecento americano, concepì la vocazione di narratrice come apostolato e testimonianza di fede in un mondo che aveva (ed ha) gettato alle ortiche il senso del sacro. Le storie della O’Connor sono ambientate in un Sud primitivo che è ormai un topos, una terra costellata di campagne disabitate e città minuscole, di predicatori ambulanti e incendi roventi, di famiglie contadine contagiate dalla pazzia. La deformazione fisica e spirituale dei suoi personaggi è il mezzo estetico di cui si avvale per provocare nel lettore un giudizio morale. Nel 1988 la sua opera narrativa – e una selezione di quella epistolare e saggistica – è stata pubblicata nella prestigiosa collana della Library of America, un’onore riservato (oltre naturalmente ai grandi del passato) solamente al suo padre artistico William Faulkner. Il prezioso paniere di pagine che ci ha lasciato (due romanzi e un pugno di racconti eccezionali!) l’hanno dunque eletta icona letteraria, e oggi l’autrice è considerata un “mostro sacro” praticamente irraggiungibile. A chi la accusava di indulgere alle bassezze anziché trattare argomenti “edificanti” ribatteva serafica: «Lo scrittore cattolico sentirà la vita dal punto di vista del mistero cristiano centrale: cioè che per essa, a dispetto di tutto il suo orrore, Dio ha ritenuto valesse la pena morire». Non si tratta di dare lezioni di spiritualità o di morale, ma di tentare di rendere di nuovo in qualche modo presente il Mistero a lettori che ne sono radicalmente estranei: «L’argomento della mia narrativa è l’azione della grazia in un territorio occupato in gran parte dal diavolo».
“Ho visto un uomo a pezzi” di Ilaria Macchia (Mondadori)
Negli ultimi anni avevo perso di vista le scrittrici nostrane, preferendo focalizzare l’attenzione sulla produzione femminile d’oltreoceano (la Atwood, Antonia Byatt, la Oates ecc.) oppure mi ero pigramente rifugiato nei grandi nomi del passato (impossibile per chiunque ami la lettura non godere delle pagine della Ortese). Poi mi è capitato tra le mani il romanzo di esordio di Ilaria Macchia, giovane sceneggiatrice salentina, ed è stata una folgorazione. Ho visto un uomo a pezzi è un romanzo introspettivo a tinte forti. La protagonista Irene, svelata attraverso sette racconti che la ritraggono in momenti diversi, è una creatura fragile, malinconica e taciturna che, dopo un soggiorno a Londra, ritorna nella sua città natale, Lecce, per assistere i suoi genitori colpevoli di aver investito una donna. La sua casa “sempre uguale, faticosa, enorme” le è sempre stata stretta ed ha inghiottito, per anni, il silenzio della sua anima solitaria. Quella che ci viene presentata è una donna che si sente sempre sbagliata, in errore, con cicatrici sparse in tutto il corpo, simbolo di cadute spesso rovinose e continue. Innamorata di un uomo sposato con figli, inanella delle avventure che si susseguono senza lasciare traccia di un sentimento chiamato amore. Una educazione sentimentale dolorosa e disfunzionale che ci viene rappresentata tramite una scrittura spigolosa, cesellata e mai gratuita, capace di regalarci tutta l’asciuttezza dei momenti tristi dell’esistenza facendocene assaporare la perversa poesia che li accompagna. Quella di Ilaria è una penna sensibile e matura che ha saputo scrivere un romanzo nettato di facili romanticherie. Un gran libro, che ti lascia un grumo scuro e denso nello stomaco.
“L’anima della frontiera” di Matteo Righetto (Mondadori)
Sono numerosi invece i colleghi uomini che compulso e ammiro, alcuni dei quali sono con gli anni diventati anche veri amici (permettetemi di citare almeno Luca Ricci, un professionista irraggiungibile della forma breve, e Orazio Labbate, cui mi lega la venerazione per il Southern Gothic e l’Horcynus Orca); ma in questa sede vorrei consigliare il mio fratello d’intenti Matteo Righetto, scrittore padovano che da anni sta portando avanti un discorso “americano” sulla sua regione, traslando e facendo propri alcuni stilemi del Grande Romanzo di Frontiera per narrarci storie dal sapore epico e senza tempo. L’anima della frontiera, il suo ultimo lavoro, è un romanzo unico, lirico e scarno, nitido come un cielo spazzato dal vento. Righetto descrive con maestria scenari naturali di grande bellezza e ne fa il correlativo oggettivo dell’anima delicata e forte della sua splendida protagonista, Jole, una quindicenne che si ritroverà ad affrontare il viaggio oltre la frontiera austriaca per contrabbandare il tabacco, unico bene di sussistenza della propria famiglia. Un cammino impervio attraverso sentieri e passaggi impraticabili, minacciato dalle bestie feroci, dagli agguati dei briganti e dalla sorveglianza dei finanzieri. Il libro è quasi un western italico e solenne, tutto da gustare.