“Nozze” del premio Nobel 1957 non è un semplice quaderno di viaggio, ma una lunga riflessione in prosa poetica: una geografia del deserto in cui il lettore s’interroga su di sé, nei meandri della sua esistenza, in quelli violentati dal vento o vivificati dal sole sfrontato della vita
A Simona
Il mare, la spiaggia, il sole, gli odori forti della natura quando si risveglia in primavera, nell’immaginario collettivo rimandano quasi sempre a momenti spensierati, leggeri. Non così in Nozze di Albert Camus, quattro saggi, diremmo meglio meditazioni, in cui quegli elementi diventano costitutivi di luoghi dell’anima, profondi e densi. La raccolta vide la luce nel ’39 grazie a Edmond Charlot, di poco più giovane di Camus, editore dal fiuto sopraffino che avrebbe annoverato fra i suoi autori anche Roblès e Roy, ma la stesura cominciò probabilmente intorno al ’36, quando non era ancora lo scrittore de Lo straniero ed era già stato interdetto dal provare il concorso di professore di filosofia, aveva già rinunciato al calcio, – sport che tanto amava e in cui giocava come portiere sin dai tempi del liceo – a causa della tubercolosi, malattia contratta in giovane età che lo avrebbe minato nel fisico e accompagnato per tutta la vita.
Un inno alla vita, la natura e il suo splendore
Eppure, tutta la raccolta è un inno alla vita e alla ricerca dell’intima unione col mondo. Ne è una forte testimonianza la prima delle quattro meditazioni: Nozze a Tipasa. Qui l’autore racconta un vero e proprio rito primordiale, che egli compie con la Natura, quest’ultima sposa sfacciata e disinibita che si offre allo sposo con le sue fattezze di terra, di aria, di luce. Soprattutto di luce, che abbacina e stordisce e che ricorda inevitabilmente al lettore l’altra luce, quella del sole colpevole di aver spinto Mersault a sparare senza motivo contro l’arabo sulla spiaggia di Algeri. Qui la luce gioca un ruolo fondamentale: avvolge, riscalda, accentua. Non c’è nulla di mortifero, anzi; non è ancora estate, la calura incessante non ha avuto il tempo di sopraffare la terra, e la natura raggiunge tutto il suo splendore, coinvolgendo tutti i sensi.
Fra gli odori degli assenzi che fermentano sotto il sole, in mezzo alle rovine fenicie, romane e cristiane che soccombono sotto l’avanzare del tempo e della Natura che si riappropria dei suoi spazi, lo sposo è pronto e può camminare incontro «all’amore e al desiderio». Il tentativo dello sposo è ora di accordare il suo respiro a quello del mondo, in una sorta di esicasmo che contribuisce a celebrare quel rito pagano di congiungimento con il mondo. La Natura è viva, respira, parla attraverso i suoi colori accesi delle buganvillee, degli ibiscus, degli iris, bacia attraverso le onde del mare. È qui che l’uomo non ha bisogno di indossare maschere, perché davanti a tanta bellezza che trasuda da ogni minimo particolare, non si può e non è necessario fingere. In questo lembo di terra, in questo paradiso terrestre, egli sente d’avere compiuto il suo «mestiere di uomo» e cioè l’essere felice e in armonia con il mondo. L’altrove non è necessario, è qui ed ora che l’uomo fa esperienza di se stesso, del suo amore per la vita che intende condividere con la «razza nata dal sole».
Affrontare la morte faccia a faccia
Il tono cambia nella seconda meditazione, meno sensuale, meno appagata, più introspettiva. Protagonista è il vento. A Djemila, nell’entroterra algerino, da cui non si passa, ma verso cui si va apposta, insieme al sole e alle antiche rovine, il vento accentua la pesantezza del silenzio del luogo e esercita sul visitatore una fascinazione, un potere incantatorio che gli leviga l’anima, fino a renderlo simile al paesaggio che lo circonda, pietra tra le pietre. Le rovine romane smussate dal vento, non sono altro che la negazione dell’ideale di eternità e di grandezza che quella civiltà invece voleva perpetrare. È il mondo che vince la storia e non viceversa. Il cielo, che dura eterno, dev’essere la misura della finitezza dell’uomo e quindi della sua presa di coscienza che la morte vera sarebbe per l’uomo proprio quella determinata dalla speranza in un altrove. Perché per Camus vivere pienamente è rifiutare la speranza in un’altra vita. Vivere separati dal mondo provoca nell’uomo la paura della morte. Più avanti, in Estate ad Algeri, lo scrittore ricorderà che la speranza equivale alla rassegnazione e rassegnarsi non è vivere. Un mondo senza speranza nella vita oltre la morte è per Camus un mondo che non si rassegna alla vita. Appare chiaro che ne Il vento a Djemila la rigenerazione del corpo non è evasione, non è pascaliana distrazione. Ma anzi, l’uomo si immerge completamente nella storia, nel tempo immobile che è figura del niente al di là della morte. Solo questa consapevolezza permette all’uomo di affrontare la morte faccia a faccia, come fanno i giovani, che non hanno ancora avuto il tempo di costruirsi illusioni che allontanino dalla verità. In ciò sta il vero progresso per Camus: nel creare morti consapevoli, che possano diminuire la distanza che ci separa dal mondo.
Algeri, città che non dà lezioni ma si offre
In questo percorso ideale di ricerca di senso un posto rilevante occupa Algeri. Siamo alla terza meditazione: lo sguardo sulla città è quello di un uomo innamorato della sua terra, che la ama visceralmente, e proprio per questo non la idealizza, ma ne scorge e stigmatizza i difetti, esaltandone allo stesso tempo i pregi. Algeri non è solo una città con le sue contraddizioni, dove ad ogni angolo si scorge il mare e i cui crepuscoli, per lo scrittore, sono come «promesse di felicità». Non è una città che dà lezioni, come Parigi, Praga o Firenze. È invece una città che si offre, che offre tutta se stessa, con il suo splendore e le sue miserie. Niente sotterfugi. D’altra parte, non potrebbe essere altrimenti per un popolo che ha scommesso tutto sulla bellezza della gioventù e dell’hic et nunc. Una città votata al presente, che fugge la morte, ma che eppure vi gioca, come quei giovani che portano le loro ragazze sotto le mura del cimitero di Belcourt per fare l’amore. Morte e vita si incontrano.
Anche in questa meditazione Camus ritorna sull’impossibilità dell’esistenza di una «felicità sovrumana». L’eternità è ciò che continuerà ad essere dopo la morte dell’uomo e cioè il cielo, il mare, il sole. Elementi, questi, che non sono stereotipi da cartolina: il lettore non ha mai la sensazione di essere davanti a dei luoghi comuni, perché Camus li trasforma in luoghi dell’anima che rappresentano l’unica certezza di fronte all’assurdità della vita. L’uomo muore, la Natura rimane, eterna. Esaltarne la bellezza significa quindi, anche, accrescere nell’uomo il sentimento dell’assurdo.
A Firenze, cercando il senso della vita
L’ultima meditazione, Il deserto, ci allontana dall’Algeria e ci porta a Firenze dove, tra gli ex voto di piazza della Santissima Annunziata, fra gli alberi del giardino di Boboli o nella contemplazione dello skyline delle colline fiesolane, Camus spinge ancora avanti la sua ricerca della verità. Verità è ciò che purifica, che non dà speranza nell’altrove, che «trova la sua ragione nel corpo». La verità è in ciò che è tangibile, sensibile, che esiste. Il resto no. Camus continua a cercare il senso della vita nel respiro del mondo, l’unico eterno, l’unico che si impossessa lentamente, ma inesorabilmente, delle vestigia umane, quelle «pietre» che rappresentano il passato dell’uomo. Sì perché, anche in Italia, dove la bellezza è sorprendente, gli uomini continuano a morire. Ad un certo punto, l’uomo cosciente capisce che deve vivere senza speranza, perché essa è un inganno. Se comprende che si deve muovere in un deserto, in un luogo senza cose false che dissetano e danno l’illusione della felicità allora l’uomo potrà far convivere in sé l’amore per la vita e il senso di rivolta contro la rassegnazione e la speranza nell’altrove.
Nozze non è un semplice quaderno di viaggio, ma una lunga riflessione in prosa poetica che contiene in sé alcuni dei temi che apparterranno alla scrittura camusiana più matura. Il lettore è condotto lungo una «geografia del deserto» che lo porterà a interrogarsi su di sé, nei meandri della sua esistenza, in quelli violentati dal vento o vivificati dal sole sfrontato della vita. Che in fondo è quello che ogni libro, degno di chiamarsi tale, fa.
Postilla: Il deserto è dedicato a Jean Grenier, scrittore nonché professore e maestro di Camus, nel senso più nobile del termine. Maestro che si prese la briga, non vedendolo a scuola per diversi giorni, di andarlo a trovare nella sua povera casa a Belcourt. Lo stupore di Camus fu un tutt’uno con la gratitudine per quella presenza quel giorno nella sua camera, e da lì in poi nella sua vita. Maestro che come lui aveva sperimentato le nozze con il Mediterraneo.