Il racconto in presa diretta del mondo yiddish strangolato dal nazismo. Una riflessione filosofica sulla vita e sull’essere ebrei. Ecco cosa è “Il viaggio di Yash” dell’autore polacco naturalizzato statunitense
Dimenticate Jonathan Safran Foer e il suo Ogni cosa è illuminata (Guanda), mettete da parte Daniel Mendelsohn e il suo Gli scomparsi (Neri Pozza) e perfino Edmund De Waal e il suo Un’eredità di avorio e ambra (Bollati Boringhieri). Dimenticate per un attimo questi scrittori del ventunesimo secolo che hanno provato a rileggere certo passato per illuminare il presente, a caccia di radici, una ricerca vissuta in prima persona e metaforicamente. I loro viaggi nell’Europa dell’Est sono viaggi nel tempo per modo di dire: ricercano le radici familiari nel perduto mondo yiddish, scomparso da decenni, rintracciabile solo nelle macerie della storia, in quel poco che il nazismo ha risparmiato; si fanno cronisti della storia e della memoria, con esiti importanti, anche se ai loro libri sembra mancare qualcosa.
Il coraggio di una riflessione filosofica
Immaginate un viaggio nel cuore del Male, vivo e vegeto, anzi in piena espansione, negli anni Trenta, pensate all’Europa che sta per essere sconvolta politicamente, ma che è già malamente squassata nelle menti di molti, nel sentire comune, nella società e nell’arte. Pensate a un ebreo che torna sui propri passi, che lascia il rifugio dell’America per tornare a Lublino, al capezzale della madre morente. Questo, in parte, racconta Il viaggio di Yash (470 pagine, 20 euro) di Jacob Glatstein, pubblicato da Giuntina, con cura e traduzione di Marina Ines Romano: è la riscoperta di un classico dimenticato, che ha molto da dire, soprattutto ai lettori di oggi. Il quid che manca ad altri libri? La capacità e il coraggio di una riflessione filosofica mentre manca la terra sotto i piedi.
Tra il transatlantico e l’albergo sanatorio
È una trilogia mai completata, quella di Glatstein, consta di due volumi: il primo racconta principalmente del viaggio sul transatlantico Olympic, per attraversare l’Oceano, l’altro un soggiorno in un hotel polacco che assomiglia a un sanatorio, uno dei luoghi per eccellenza della letteratura del Novecento; c’è tanto realismo, molta tradizione yiddish, echi della vita degli shtetl, ma sbiadiscono a confronto della continua riflessione interiore, sul destino dell’uomo, sui guai della storia, sull’essere ebrei, sulla bellezza. C’è un mondo violentemente al tramonto – in presa diretta, non come nei romanzi o nei memoir di Foer, Mendelsohn, De Waal – e l’orecchio d’oro dell’io narrante coglie sfumature di morte e declino, ricordi felici, pericoli imminenti. Tornato negli Usa, Glatstein proseguirà idealmente la testimonianza, con il suo lavoro da giornalista, con un’intensa attività pubblicistica: quello che stava succedendo all’Europa, e in particolare all’Europa ebraica, in molti non lo mettevano a fuoco; altri volgevano lo sguardo altrove, per ignavia, ignoranza, viltà. Glatstein non poteva certo permetterselo. (L’illustrazione di Jacob Glatstein è di Francesco Lo Iacono)