Il librettista della Bohème, il pianto di Colline e il suo canto di filosofo-profeta, sono come una ricerca di un vero “più vero” della morte stessa. La zimarra e la romanza che è un inno al Signore
In realtà il suo nome è Giuseppe. Ma me lo immagino chiamato con questo confidenziale diminutivo piemontese (o anche Peppe, Peppino, Pippo, Geppo, etc.), nei salotti letterari di quegli anni, circondato com’era da quel nugolo di amici che, qualche anno dopo, ciascun cronista del nostro Bel Paese avrebbe riconosciuto come tasselli di un unico grande miracolo culturale italiano. Parlo di Fogazzaro, Boito, Verga, Carducci, De Amicis, della bella Eleonora Duse, e di molti altri. Tutti amici del nostro Giuseppe Giacosa, tutti artisti come lui, tutti inguaribilmente innamorati della vita.
Scrittore, poeta e librettista
Ma chi era Giuseppe Giacosa? Saperlo nato nel 1847, vicino Torino, nel piccolissimo comune di Collereto Parella (proprio piccolo, circa seicento abitanti, che oggi si chiama Collereto Giacosa), non ci dice ancora nulla… purtroppo. Giacosa è uno di quei corpi celesti che per anni vengono considerati satelliti, e poi si scoprono essere pianeti! E allora ascoltate; magari delle dolci suggestioni smuoveranno le sabbie della memoria: «Che gelida manina, se la lasci riscaldar… Cercar che giova? Al buio non si trova…». Non vi dice niente? Impossibile. Scommetto che immediatamente le immortali note della… ops… de La Bohème vi hanno invaso il cervello. Sì. Giacosa è l’autore geniale di quelle parole, e di tante altre. Uno scrittore e un poeta che all’occasione faceva il librettista, perché gli piaceva proprio, e che deve al melodramma parte della sua fama, ed oggi gran parte della sua notorietà.
Come Mogol e Battisti
Tra Giacosa e Puccini vi era, più o meno, lo stesso rapporto artistico esistente tra Mogol e Battisti: nessuno dei due era solo paroliere o solo musicista. Stiamo parlando di connubi mentali talmente complessi (avere i “cervelli collegati in Wi-Fi”) da rendere davvero difficile definire un netto confine tra pentagramma e taccuino.
Le cose funzionavano pressappoco così: Luigi Illica (l’altro librettista, anche se non propriamente tale), che conosceva bene i meccanismi del melodramma, tracciava su grandi linee il dispiegarsi della trama, suddivideva la storia in capitoli (nell’opera atti) e i capitoli in scene; stabiliva l’entità specifica dei vari personaggi, con le loro precise connotazioni caratteriali e psicologiche, e faceva quello che oggi chiameremmo il lavoro dello sceneggiatore. Giacomo Puccini, a questo punto, dava vita a quelle pagine musicali, a quei recitativi, e a quelle romanze chiamate a diventare i contesti espressivi dei singoli personaggi e della storia in generale. Giuseppe Giacosa, infine, su quelle note, soffiava lo spirito della parola, dando loro vita immortale. Ci avete visto un’immagine genesiaca? Ottimo!
Pazienza e ironia
Lavorare con Puccini non era semplice; non lo era affatto. Il compositore lucchese non aveva un temperamento propriamente tranquillo. Poco male, diremmo oggi, con il senno asettico dei luoghi comuni: un artista è sempre un po’ pazzo. Ma queste espressioni aiutano più che altro noi a creare piccoli “olimpi di concetto”, così da potervi facilmente collocare menti e cervelli della cultura e della storia. Pensiamo però cosa dovesse significare mettersi al lavoro con un compositore che molte volte, anche lui poeta in fondo, suggeriva al librettista di turno quali parole utilizzare e in che modo, proponendo rime, chiasmi, retoriche varie. Insomma, bisognava essere mostri di umiltà e di pazienza per scrivere un libretto a Puccini. Tale era Giacosa, che molte volte infatti aveva minacciato di interrompere quel sodalizio, e che mai però lo fece.
Pur essendo un drammaturgo avviato (in tutto scrisse venticinque opere teatrali e il suo successo in Europa era fuori discussione), si lasciava tuttavia percuotere dai violenti entusiasmi creativi di Puccini, e quando Illica andava di matto, Giacosa riusciva sempre a far calmare le acque. Tra i tre era senz’altro il più paziente e il più mite, il più incline all’ironia, il più bravo a mettere pace, a ridimensionare e relativizzare le questioni. Un uomo tutto d’un pezzo, di antichi valori, dedito alla famiglia, coccolone con le sue tre figliolette, e simpaticissimo conversatore. Un po’ robustello, ma con quella faccia da filosofo vissuto che sapeva ridere di se stesso e dei dolori del mondo, e sapeva far piangere. Stava simpatico a tutti, ma lo si guardava con colta venerazione.
Concimare l’attimo
E così, come chi sa aspettare, Giacosa concimava silenziosamente l’attimo; attendeva il momento in cui avrebbe fatto sì che le marionette di quel libretto diventassero creature vere, chiamate all’essere dalla parola poetica. Colline, uno dei personaggi de La Bohème… sentite, vi prego, fatemi articolare quella preposizione! Colline, dicevo, uno dei personaggi della Bohème (Ah!), credo somigli tanto a Giacosa: scherzoso quando serve, giovane e povero come gli altri personaggi, meravigliosamente autoironico e tristemente drammatico nei passaggi decisivi della trama. Colline è un filosofo. E cosa fa un filosofo? Vabbè, sì, ricerca la causa prima. Questa è una risposta accademica. Ma in realtà… cosa fa? Immagina, vive di sensazioni, di intuizioni che guizzano tra il mondo dei concetti e quello della realtà! Sì, perché le immagini gli servono a dare un corpo di carne e sangue alla verità. Così fa appunto Colline, il quale sa muoversi nella spumosa Parigi del XIX Secolo, senza che il secolo lo intacchi. Si lascia sfiorare dai vezzi, dalle mode, dai linguaggi, ma rimane fedele a se stesso, o meglio, a ciò che in quanto filosofo egli vuole difendere: il vero. E parla in latino anche quando si prende poco sul serio e scherza sulla sua nobile natura (mescolata di assoluto e di contingente), come a voler dire: «Non dimenticate che un filosofo sa scherzare, ma rimane un filosofo!».
Si potrebbe pensare che La Bohème sia la genesi del melodramma verista proprio grazie a personaggi come lui, ma non sarebbe del tutto corretto. La morte di Mimì è terribilmente vera, nel senso verista del termine, come pure il grido straziante di Rodolfo; il pianto di Colline, e il suo canto di filosofo-profeta, sono invece come una ricerca di un vero “più vero” della morte stessa.
Mi trovavo a pranzo in un ristorante, un giorno, insieme al Maestro Antonio Pirolli, ottimo e sensibile direttore d’orchestra. A tavola eravamo in tre: il sacerdote presso cui svolgevo allora il mio vice-parrocato, Pirolli, ed io. Si parlava un po’ di tutto e ci si confrontava a partire dai rispettivi “mestieri”.
Il direttore d’orchestra, un prete al contrario
«Per me un direttore d’orchestra» diceva lui «è come una specie di prete, ma al contrario…».
«In che senso?»
«Tu devi cercare di riconoscere nelle persone della tua parrocchia le varie sfumature di colore dell’unica Luce che viene dall’alto… Devi tirar fuori tutti i carismi dall’unico Spirito che viene dall’alto! Io devo fare esattamente la cosa inversa: da tutti i suoni dell’orchestra devo ricavare un’unica musica, e mandarla più in alto che posso!»
Rimasi estasiato dalla bellezza, e soprattutto dall’efficacia della similitudine che il Maestro mi aveva proposto. E pensai che ci fossero i termini minimi per “confessarmi” con lui. Per confidargli, cioè, qualcosa che avevo sempre portato con me, ma che non avevo avuto il coraggio di dire mai a nessuno. Non perché me ne vergognassi, ma perché pensavo di non essere capito. Percepii quel giorno, invece, che Pirolli avrebbe capito senz’altro. E così gli rivelai la mia personale lettura di uno dei più struggenti passi della Bohème, quello in cui Colline, per ricavare qualche soldo a vantaggio della povera e malata Mimì, decide di vendere la sua zimarra.
Diamo un’occhiata alle parole della romanza, e poi continuiamo: «Vecchia zimarra, senti, io resto al pian, tu ascendere il sacro monte or devi. Le mie grazie ricevi. Mai non curvasti il logoro dorso ai ricchi ed ai potenti. Passar[-ono] nelle tue tasche come in antri tranquilli filosofi e poeti. Ora che i giorni lieti fuggir[-ono], ti dico: addio fedele amico mio. Addio. Addio.»
La zimarra come Gesù Cristo
Colline parla alla sua zimarra, una specie di mantello, di sopravveste; evidentemente la considera amica di mille avventure, perché logora come lui, come il suo animo di filosofo. Le parla come parlasse ad una persona, e la saluta, spiegandole che “è giunta l’ora” che essa ascenda il “sacro monte”. Poi la ringrazia per la sua altissima dignità, che è riuscita a non piegarsi davanti ai potenti del mondo (nonostante, mentre Colline canta, egli ripieghi la sua zimarra tra le mani) e le ricorda che nelle sue tasche, come in luoghi tranquilli, hanno trovato dimora i filosofi e i poeti (per Colline, i veri sapienti, che ricercano la verità nella bellezza e nello stupore). A questo punto, Colline pronuncia il suo addio, rivolgendosi alla zimarra ma chiamandola “amico mio”, cambiandole cioè il genere. Necessità artistiche, diranno alcuni, legate solo al fatto che doveva far rima con l’addio precedente e quello successivo. Mi chiedo se un poeta dello spessore di Giacosa non avrebbe potuto ovviare al problema in altri mille modi…
«Secondo me, Maestro Pirolli, quella zimarra è come Gesù Cristo. È venuto il momento di consegnarsi perché qualcuno, un povero, un sofferente, trovi un po’ di conforto. È venuto il momento di ascendere il monte, che se nella lettura letterale è il monte di pietà, in quella spirituale è proprio il Calvario. Questa zimarra, logora, povera, flagellata e piegata tra le mani degli uomini, ma che si è lasciata piegare proprio per non piegarsi, proprio per rimanere fedele alla sua missione: proteggere. Una zimarra presso cui trova dimora ogni sapienza, e contro la quale i potenti non hanno potere. Per me è un inno al Signore quella romanza… È un canto appassionato, nel contesto di una Passione e Morte.»
Si commosse il Direttore d’orchestra, forse perché mi vide commuovermi. Forse perché capiva che, consegnandogli quella lettura un po’ atipica, temevo di essere preso per pazzo.
«Che fosse una romanza sacra l’avevo sempre creduto. Che potesse essere santa non lo pensavo ancora. La prossima volta che la dirigerò penserò a chi soffre, mi sforzerò di farla diventare una preghiera.»
Era commosso e non scherzava. Mi aveva creduto. Mi aveva capito!
Uno spazio tra noi e il cielo
«Signori, chi aveva ordinato le patate?»
Quella voce ci distolse. Si era chiuso un piccolo sipario, e l’avvento così vero delle patate era giunto crudele, come la morte di Mimì.
Non sapremo mai a cosa pensasse Giacosa, mentre scriveva quei versi. Né, in fondo, ci importa. Quella romanza… basta e avanza.
Di una cosa, però, ci piace convincerci sempre di più. Quando un poeta parla, scrive, comunica qualcosa o cerca di dar vita a qualche nota, non passano solo parole. Si apre uno spazio tra noi e il cielo dove, inevitabilmente, l’esegesi letterale inizia a soffocare, e chiede l’ossigeno dello Spirito.
Ancora una cosa… Gli ultimi accordi di Vecchia zimarra verranno ripresi da Puccini per la chiusura dell’Opera; il che potrebbe dire: «Tutto è compiuto».