“Il ministero della suprema felicità” è il secondo romanzo della scrittrice indiana a distanza di 20 anni dal primo. Un romanzo politico, lucido, poetico, vibrante
Nel film Shakespeare in love, quando si accorge che Romeo e Giulietta, quotidianamente, nel corso delle prove, sta evolvendo in qualcosa d’inaspettato e poco “vendibile”, l’impresario teatrale Philip Henslowe ricorda a Will, l’autore, che «è la commedia quello che vogliono». Più o meno è andata così, anche nella triste realtà e ai giorni nostri. Da vent’anni dicevano, spiegavano, ricordavano certe cose all’indiana che aveva scritto quel supremo e sontuoso romanzo, Il dio delle piccole cose, che era piaciuto proprio a tutti, alla pendolare della metropolitana e ai critici con la puzza sotto, sopra e dentro il naso. Ad Arundhati Roy ricordavano che aveva vinto il «Booker Prize» al primo tentativo (albo d’oro con Barnes, Byatt, Jacobson, Naipaul, Rushdie, McEwan, Coetzee due volte, Desai junior, Amis senior, Banville, Ishiguro), quando tanti altri ancora rosicano per non averlo nemmeno sfiorato. Gli ricordavano di come il vile denaro fa girare il mondo.
La dea delle piccole storie è rinsavita
Questa donna che ostinatamente per due decenni ha scritto pallosissimi pamphlet politici – dai temi nobilissimi e più che condivisibili, attenzione, spesso contro la classe dirigente del proprio Paese – che le case editrici pubblicavano solo in attesa che rinsavisse – è… rinsavita. S’è ricordata d’essere la dea delle piccole storie.
Il ministero della suprema felicità (486 pagine, 20 euro), pubblicato da Guanda, tradotto da Federica Oddera, è il suo secondo romanzo. Lo sguardo sull’India del presente (anche se una bimba, Miss Jabeen Seconda, ha un ruolo importante) non è più quello dei gemellini de Il dio delle piccole cose. La maturazione è evidente, la voce più che mai politica, è quella di una Roy cinquantacinquenne, dell’attivista che lotta contro corruzione, fondamentalismo, multinazionali, disastri ambientali, di colei che incessantemente denuncia ciò che non funziona ed è inaccettabile, a cominciare dal sistema delle caste. Il romanzo è lucido, poetico, vibrante.
Storie politicamente scorrette
Agli occhi di mezzo mondo – quello pseudo evoluto, che però elegge vari personaggi che vogliono alzare muri, invece di costruire ponti – Il ministero della suprema felicità potrà sembrare abbastanza sgradevole e di certo non politicamente corretto: la minoranza musulmana sopraffatta dalla maggioranza indù, per non parlare di un giudizio positivo sui guerriglieri comunisti del Kashmir faranno rizzare i capelli a certi benpensanti e non piaceranno a tutti ma tant’è.
Con un meccanismo cronologico moderno, anzi iper contemporaneo, Roy narra l’abbandono tra i rifiuti di una bambina, Zainab, inizio e crocevia di mille destini. Il romanzo è labirintico, erutta trame e figure memorabili, ma ripaga di tutto. C’è chi lo lascerà a metà, ma sarà una perdita assoluta non assistere agli epiloghi delle vicende dell’ermafrodita Anjum (già Aftab), dell’enigmatica Tilo, ribelle e anticonvenzionale, amata dai tempi dell’università da tre uomini (uno 007, un giornalista e Musa, guerrigliero del Kashmir), dell’intoccabile Saddam, che cambia religione, dello scheletrico dottor Azad Bhartiya (undici anni di sciopero della fame?).
Mai arrendersi
Amore, speranza e lotta – la resa non è prevista – sono i sentimenti che animano quasi tutti i personaggi, una pletora di reietti e invisibili senza voce per lo più, di un romanzo corale, in cui l’unica protagonista è l’India del ventunesimo secolo, con guerre, nazionalismi, ingiustizie, tra misticismo e violenza, opulenza e miseria, con confuse identità religiose e di genere. L’anelito alla vita degli ultimi è il messaggio che resta, dopo centinaia di pagine. La militante Roy non è sparita dalla circolazione, ma vivaddio è tornata la romanziera.