Con la Trilogia della Pianura e “Le nostre anime di notte” lo scrittore americano, scomparso da qualche anno, racconta Holt, città immaginaria specchio di felicità e tormento
Holt è una città che dà il nome a una contea del Colorado. È un luogo denso di contraddizioni, specchio di felicità e di tormento, di dolori e di riscatto. Non sempre è un posto piacevole, diciamo la verità. È, infatti, una località afflitta da piccole crudeltà quotidiane. Ne avverti a tratti l’ostilità che in certe giornate senti arrampicarsi al collo come un nodo scorsoio. Dà l’idea di essere mortalmente noiosa, ma di rappresentare anche l’ultimo rifugio per anime spiaggiate.
Una serenità apparente
Con le sue tendine appese ai vetri, la teiera sempre pronta sul fornello, le sedie ben disposte nei salotti, Holt ha un’apparenza di città tranquilla e serena. Ma è come certe scene dei thriller che partono da un interno familiare felice e poi scavano fra ombre e le ferite di una famiglia contorta, segreta, inquieta. Il lento svolgersi degli eventi, il ritmo placido ma allo stesso tempo straniante di Holt, la quiete della sua polvere che s’alza nei rari momenti in cui le strade sono battute, ci riportano a un’America profonda e oleografica, da fare venire in mente le bellissime e malinconicissime foto di Edward Ruscha di Twentysix Gasoline Stations del 1963.
Storie minime, scrittura scabra
Insomma, Holt è tutto questo. Ma, è insieme, terreno capace di vedere fiorire un’umanità dolce e disinteressata; una palestra di solidarietà e fratellanza dettata non da una religione, ma da una profonda compassione dei suoi abitanti, spesso esempi fulgidi e scintillanti di sintonia umana, di poche parole, propria di chi va all’essenza delle cose, alla radice del nostro essere uomini e donne che prendono senso e sostanza dal loro stare insieme, dall’aiutarsi, dal proteggersi.
Holt, Colorado, Stati Uniti.
Ma Holt, non esiste. Holt è un’invenzione. È il posto dove Kent Haruf, scrittore americano scomparso tre anni fa, ha scelto di far muovere i suoi personaggi, di ambientare le sue storie minime, di sgocciolare pagina dopo pagina la condizione umana di una generazione, in fondo, senza tempo. Una scrittura scabra, essenziale. Quasi elementare: ma quanta ricerca e difficoltà impone una narrazione di quel livello? Ogni parola al suo posto, ogni verbo selezionato, gli aggettivi mai a casaccio. Un procedere implacabile come il vento gelido di certe giornate a Holt, Colorado, Stati Uniti.
La trilogia
Lo pubblica una piccola casa editrice (NN editore) in volumi eleganti e raffinati che sono anche un tratto caratteristico dell’intera produzione in catalogo. La Trilogia della Pianura (Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo) è il trittico che ha reso famoso in Italia Haruf. E sempre con il suo passo lieve, la sua narrazione senza fronzoli e mai sconnessa riesce a consegnarsi una sorta di epopea delle vite insignificanti. Ma che nella penna di Haruf assurgono alla dignità del “narrabile”, come direbbe Americo Castro. Fra i personaggi più riusciti i fratelli Mc Pheron, due anziani vaccari che conoscono solamente mandrie e fatica e che accettano di illuminare la loro esistenza accogliendo nella loro casa, e sostenendola, una giovane (Victoria, si chiama) che a sedici anni scopre di essere incinta. L’incanto di quel rapporto che nasce è davvero uno dei momenti più poetici della “trilogia”. Così come la bellissima anima di Rose Tyler che prenderà in consegna la sventurata e dolorosa vita di due piccoli fratelli che vivono in una roulotte, sono segnati dalla violenza e devono anche subìre il distacco dai genitori. E poi c’è il ruvido Dad, che sta morendo. Ha mandato avanti per anni un negozio di ferramenta. Un cancro se lo sta portando via. E deve fare i conti con sé stesso, col suo passato di maschio e col contrappasso di un figlio omosessuale con cui ha troncato i rapporti da anni. Ché, poi, personaggi, comprimari, figuranti spesso nei tre libri tornano, si ritrovano o vengono menzionati. E diventa quasi indispensabile, una volta preso in mano un volume, non volere vedere come va a finire.
La quarta gemma
C’è anche un quarto libro di Haruf, sempre ambientato a Holt, pubblicato da NN. Si chiama Le nostre anime di notte. È quello che lui ha scritto poco prima di morire. È un storia di una semplicità spiazzante, ma dai risvolti in qualche caso imprevedibili. E alla fine non si può non parteggiare per la coppia di anziani vedovi protagonisti (Addie Moore e Louis Waters) sui quali Haruf fa calare il dio dell’amore. Lei, un giorno, va da lui. E vincendo una naturale ritrosia gli fa una proposta ribalda e scandalosa: passare le notti insieme per farsi compagnia.
“Viviamo per conto nostro da troppo tempo. Io sono sola. Credo lo sia anche tu. Stavo pensando se tu volessi venire e dormire con me la notte e parlare. Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starsene al caldo nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire. Le notti sono la cosa peggiore non trovi?”.
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