Un romanzo ambientato principalmente nella multietnica Rio de Janeiro degli anni Trenta, con l’eco del mondo perduto degli ebrei dell’Europa centrorientale, dal sapore antico ma con una struttura narrativa modernissima. Una storia d’amore sullo sfondo del regime del dittatore Getúlio Vargas, una vicenda in cui quasi nessuno è chi sembra. Affabulazione e un gioco d’incastri della narrativa migliore, quella divertente, alla maniera di Cortàzar: «Divertente non è il contrario di serio, bensì di noioso». È tutto quello che garantisce “Traducendo Hannah” (221 pagine, 15 euro) del brasiliano Ronaldo Wrobel, edito in Italia da Giuntina. I libri che lasciano senza fiato – diceva più o meno Holden – sono quelli che, finiti di leggere, si vorrebbe poter chiamare l’autore al telefono. La posta elettronica – reperto archeologico del Web – e la disponibilità di Wrobel hanno reso possibile il miracolo di questa intervista.
Ronaldo Wrobel, di professione avvocato, come è nata la sua vocazione letteraria?
«Amavo scrivere anche da bambino e ho continuato da ragazzo, a scrivere più che altro della mia vita e dei miei sentimenti: riflessioni personali, alla maniera di Clarice Lispector (scrittrice ucraina, naturalizzata brasiliana, ndr). Crescendo, volevo scrivere storie più che riflessioni. La mia sfida era creare storie che non avessero necessariamente risvolti etici o ideologici. Mi sono sempre piaciute le sceneggiature. Ammiro il potere di sintesi di certi film o di alcuni programmi tv. Mi incantano il ritmo del linguaggio cinematografico e ho cercato di trasfigurare questo stile nei miei libri, mescolando densità della letteratura e dinamismo del cinema. La carriera di avvocato, poi, ha contribuito al mio lavoro creativo, perché tutto il processo giudiziario è un romanzo, con personaggi a confronto che hanno interessi diversi e, magari, con un esito inevitabile».
La letteratura brasiliana fa venire alla mente l’epica di Guimarães Rosa, i colori e la carnalità di Amado, il melodramma malinconico e tenero di Abreu, perfino il new age di Coelho. Da dove vengono invece Wrobel e la sua Hannah?
«Sono brasiliano, ma considero la mia opera letteraria universale. E anche il Brasile è un paese universale, per certi versi una terra senza una specifica identità. Autori come Guimarães Rosa e Amado sono stati capaci di sintetizzare letterariamente Minas Gerais e Bahia. Ci sono importanti scrittori metropolitani del ventesimo secolo, come John River e Machado de Assis, che hanno fatto un ottimo ritratto sociale di quel periodo. Io non mi sento d’appartenere a una categoria specifica. La mia letteratura ha forti tratti ebraici e magari qualche affinità con l’opera del grande Moacyr Scliar (in Italia pubblicato principalmente da Voland, ndr), il nostro più grande scrittore ebreo contemporaneo, scomparso nel 2011. Sono cresciuto da cittadino del mondo, con nonni e zie fuggiti da Russia, Polonia e Lettonia, ho cugini in tutto il pianeta, ed è una cosa che mi ha influenzato molto. Poi è vero che c’è anche il Brasile nella mia scrittura. Non solo attraverso una bella lingua come il portoghese, ma per gli stati d’animo, le tensioni sociali e il ricco panorama culturale, che comunque è l’eredità di un incredibile melting pot. Negli anni Venti si sviluppò un forte movimento nazionalista nella letteratura brasiliana, ma oggi è in declino. La mia generazione di scrittori non pensa all’identità brasiliana delle proprie opere, il Brasile è un paese vario e non contiene una sola identità, anzi per esempio ci sono molte comunità regionali o straniere che mantengono le proprie tradizioni. Credo che il Brasile sia l’unico posto al mondo dove resistono la cultura e la lingua originale della Pomerania occidentale, che ora corrisponde alla Germania del nord».
Quanto sente d’essere in debito con la tradizione di I. B. Singer e Bruno Schulz? E quanta affinità sente d’avere con scrittori come J. S. Foer e Nicole Krauss?
«Apprezzo la letteratura ebraica dei villaggi dell’Europa orientale, presente in gran parte dell’opera di Isaac Bashevis Singer. Amo i racconti di Schulz, che hanno una prospettiva più urbana. Stefan Zweig è un altro autore che ammiro; si trasferì dall’Austria al Brasile, dove morì nel 1942: le sue storie sono più cosmopolite, occidentali e romantiche, e non hanno temi necessariamente ebraici. Riconosco una certa affinità con Foer, essenzialmente per il suo stile contemporaneo e un’irrequietezza spirituale di fondo. Mi piacerebbe conoscere l’opera di Nicole Krauss, ma non ho ancora letto niente di suo».
Come è nato il romanzo “Traducendo Hannah”? Voleva raccontare il Brasile di Getùlio Vargas o l’amore eterno?
«Il periodo di Getúlio Vargas è quello che vissero i miei nonni, quando arrivarono qui, nel 1928. Le loro storie, che ho ascoltato durante l’infanzia, erano impregnate di quel tempo di forte tensione ideologica. Gli ebrei dell’Europa centrorientale trovarono nel Brasile un paese povero economicamente e culturalmente, ma tutto sommato ospitale, senza la presenza di un forte antisemitismo. Una delle persone che ho intervistato per questo romanzo ha sintetizzato tutto nella frase: il Brasile non conosce odio. A Rio convivevano molte culture, c’erano conflitti politici e ideologici. I miei nonni videro per la prima volta donne e uomini neri. Il quartiere in cui vivevano, Praça Onze (in cui è ambientato “Traducendo Hannah, ndr”), sorgeva nei pressi di un slum, dove erano d’attualità riti vodoo, scuole di samba, un pozzo di belle storie. Gli ebrei dell’Est Europa erano monitorati dalla polizia, a cominciare dalla corrispondenza, come tutti gli stranieri, perché Vargas temeva movimenti rivoluzionari, in particolare quelli comunisti. Anche i tedeschi non ebbero vita facile. “Traducendo Hannah” parla di temi universali. È una storia immaginaria ispirata a quella di una mia prozia, che sosteneva di ricevere lettere in buste che erano state aperte o manipolate; sapeva che le sue lettere erano state lette da qualcuno e questo è stato l’input della mia ispirazione. “Traducendo Hannah” parla della necessità di tutti di meritare l’amore del prossimo e di mantenerlo, anche quando il tempo passa».
Quanto di lei o di uomini che conosce è trasfigurato nel protagonista, Max Kutner?
«Max Kutner è un personaggio tipico della cultura ebraica ashkenazita. Un profilo ben ritratto da Woody Allen, quello di un uomo timido che non vuole occuparsi dei problemi altrui, perché ne ha già di personali da risolvere. Ho conosciuto tanta gente come Max Kutner e anche io gli assomiglio, sono un sognatore introspettivo che cerca tranquillità. Max vorrebbe stare lontano dalla politica, ma tutti i nostri atteggiamenti e relazioni sono di natura politica, anche i vestiti che si indossano. È un’utopia voler vivere lontano dalla storia. Siamo tutti nello stesso campo di battaglia. Io credo di essere presente anche in altri personaggi, a cominciare da Hannah. La cosa divertente di scrivere un romanzo è che l’autore può mettere in bocca ai personaggi quello che pensa. Parafrasando Flaubert che sosteneva che Madame Bovary era lui, potrei dire: Hannah c’est moi».
Quali sono cinque romanzi che ama e sono stati importanti nella sua formazione?
«”L’amore ai tempi del colera” di Gabriel Garcia Marquez, il cui lirismo mi ha affascinato in gioventù, Marquez crea un’atmosfera fantastica, autentica e coinvolgente. “La zia Julia e lo scribacchino” di Mario Vargas Llosa, che ha uno stile incredibile, un capolavoro. “Equatore” di Miguel Souza Tavares, che ho letto di recente, ma mi ha colpito per la profondità della scrittura, un romanzo coinvolgente. “Amore ed esilio” di Isaac Bashevis Singer. Si tratta di una autobiografia romanzata, tra gli ebrei dell’Europa orientale e l’immigrazione in America. Singer sembra descrivere l’esperienza dei miei cari nonni. I miei libri sono molto ispirati da questo premio Nobel. “Il filo del rasoio” di Somerset Maugham, che ho letto da adolescente, emozionato dall’evoluzione spirituale dei personaggi. I buoni romanzi spesso parlano delle trasformazioni umane, i personaggi cambiano nel corso delle storie ed è una delle cose che Maugham dimostra in modo magistrale».
Leggeremo presto una sua nuova storia? Sta scrivendo qualcosa?
«Sto scrivendo un romanzo che ha ancora a che fare col periodo delle guerre mondiali, credo che sia parte del mio inconscio. Lo scrittore e drammaturgo Nelson Rodrigues, morto nel 1980, afferma che un uomo è la somma delle sue ossessioni. Mi sto occupando del periodo nazista, ma cercando di esplorare gli aspetti meno ovvii. Non so quando sarà pronto perché più scrivo, più mi sento lontano dalla fine, come se camminassi all’indietro. Spero di completarlo nel 2014».
Soddisfatto di essere stato pubblicato in Italia dalla casa editrice Giuntina?
«Sono molto emozionato e felice che “Traducendo Hannah” sia stato tradotto in italiano da questo editore. È stato pubblicato anche in Germania, Francia e Spagna, sapere che il proprio romanzo è tradotto è una sensazione meravigliosa. L’Italia ha un significato speciale per me, per diversi motivi. In primo luogo, perché l’Italia è una delle culle della cultura occidentale e del mondo. Scienza, arte e religione hanno l’epicentro in Italia e conosco moltissima gente che ama l’Italia. Il mio primo romanzo, “Propositos do Acasos”, edito nel 1998, nella prima parte si svolge in Italia, nella cittadina di Adria. Sono stato lì e ho amato quella regione. Poi i miei nonni e i miei zii hanno attraversato l’Italia quando fuggirono dall’Est Europa e restarono un mese a Napoli su una nave ferma, che alla fine partì. Considero importanti l’umorismo e la cultura italiana. Italo Calvino e Primo Levi sono tra i miei scrittori preferiti, per non parlare di Eco e Pirandello».
A settembre parteciperà al Festival di Mantova. Cosa le piacerebbe sentirsi dire dai lettori italiani su “Traducendo Hannah”?
«Sono felice, entusiasta e molto onorato di questo impegno a Mantova, che è una città bellissima, so che parteciperò a un incontro con altri scrittori latino-americani. Credo che il festival sia paragonabile alla Festa Literária Internacional di Paraty, che si svolge in Brasile. Quanto alla ricezione dei lettori, ho l’impressione che quelli italiani siano più sensibili all’aspetto psicologico ed emotivo della trama. Nell’arte italiana, del resto emergono sensibilità estetica, raffinatezza sensoriale e spirituale. Italia e Brasile sono unite dalle comuni origini linguistiche, il latino. Spero di imparare molto da questo viaggio in Italia».